BARGONI

BARGONI

Critica

Dove tutti quelli che hanno scritto di quadri e di pittura hanno prestato un’attenzione personale, trovando in sé e nelle parole la traccia poetica che giustifica la storia

Giovanni Maria Accame

Dal catalogo mostra personale / Galleria Rinaldo Rotta / Genova, 1978

Accame, di fronte alle minime variazioni di luce e di spazio nelle ultime tele di Bargoni, descrive il libero ritrovamento della pittura e il carattere sensibile, concreto, corporeo del colore. “Uno degli equivoci che più frequentemente si è potuto riscontrare in questi ultimi anni e che tuttora permane e affiora nelle letture critiche di alcune ricerche artistiche è quello di aver supposto che dall’interno della pittura e con la pittura si potesse uscire dalla pittura. Evidentemente la pittura non è solo e soltanto l’oggetto dipinto. La storia, la tradizione, l’uso stesso del linguaggio portano a fare del quadro il riferimento privilegiato della pittura, che però non può certo riconoscersi entro questi limiti. L’oggetto dipinto è dunque uno dei suoi confini formali, la pittura però può essere entro altri contorni, riconoscersi in altri fenomeni, che possono anche essere totalmente privi di quelle caratteristiche formali, dal supporto al colore, che contrassegnano il quadro. Converrà dunque distinguere il realizzarsi della pittura in due andamenti predominanti, l’uomo accentrato sul singolo oggetto, sulla delimitazione e concentrazione di un campo preciso, l’altro sulla diffusione ed espansione verso una pluralità di spazi e varietà di riferimenti. Da questo però non dedurrei, come forse potrebbe sembrare logico, che la limitazione dell’area di intervento significhi portare la ricerca all’interno, mentre la proiezione dei fenomeni corrisponda all’esterno. Tantomeno si dovrà cadere nella stanca polarità del “chiuso” e “aperto”. Una cosa è la formalizzazione dei fenomeni, la loro definizione e diversificazione materiale e percepibile, altra è il legame esistente tra pensiero e sua manifestazione. Quest’ultima infatti avrà sempre una sua unità nel pensiero da cui proviene. Il linguaggio a sua volta non potrà essere “esterno” a se stesso. Il fatto quindi strumentale e topologico della distribuzione dell’intervento tenuto su di un’unica superficie o comunque raccolto in una sola area, oppure la sua presenza sotto forme diverse e in più spazi ha evidentemente significati distinti e si riferisce a differenti zone d’indagine, ma non sotto l’equivoca angolazione di un “dentro” e di un “fuori”. L’applicazione della pittura, le modalità del suo farsi non possono essere altro che il suo essere al mondo e quindi sempre comprese nella tonalità del fenomeno con cui si identificano. Per Bargoni pittura significa oggetto dipinto, e tanto più sarà legittimo il termine oggetto ricordando il lavoro svolto da questo artista negli anni sessanta, quando forma e colore trovavano il loro punto d’incontro nello spessore dei rilievi. La ricerca di Bargoni ha poi proseguito in una continua e progressiva messa a punto della superficie dipinta. La pittura infatti veniva raggiunta attraverso una stratificazione di diverse stesure lasciate volutamente rintracciabili tramite diversi accorgimenti che di volta in volta ne permettevano la lettura negli sconfinamenti ai margini, nelle trasparenze di alcune velature o nella non omogenea collimazione di successive stesure. Il procedimento partiva dichiaratamente dal supporto, che quasi sempre veniva segnato, squadrato, definito geometricamente per poi giungere alla superficie dipinta. Il farsi della pittura era una costruzione per piani sovrapposti e sebbene le stesure fossero lievi, il colore disseccato, l’applicazione meditata e scarna, si avvertiva una precisa progettualità delle diverse fasi. Il lavoro più recente ribalta questo procedimento. Ed anche se, materialmente, il colore è dato in tempi successivi, non si sovrappone più, ma penetra in quello sottostante. Tecnicamente ciò è ottenuto con l’uso di colore molto diluito che fluisce sempre nella stesura precedente in un continuo assorbimento e dilatazione della zona trattata. Questa diversa presenza della pittura distinta nella sua specificità da una diversa utilizzazione dei materiali e delle tecniche sottintende ovviamente la differente angolazione di ricerca che contraddistingue l’attuale lavoro di Bargoni. La pittura pensata che precedentemente si misurava con la realtà secondo prosciugate stratificazioni, si traduce ora in una progressiva immersione nel colore. Da un’idea quindi di arido e difficoltoso raggiungimento della superficie dipinta ad un più disteso ritrovamento della pittura. La traduzione fenomenica della pittura avviene in queste opere come riscoperta della fluidità del colore, delle sue capacità di scorrere e ricoprire, di essere assorbito e di penetrare, di farsi protagonista non tramite un monologo ma assumendo tutte le parti, dialogando nei diversi ruoli e dando nella varietà degli accenti quel senso di profonda unità che gli deriva dal suo stesso essere sempre e comunque colore, nella sua declinazione più libera ma anche più pensata e interiormente sentita dall’artista. La liquefazione della materia colorata, il suo filtraggio nel doppio supporto appositamente teso, la penetrazione e la concentrazione avvertibile in questo suo prodursi, indicano una disposizione verso l’applicazione della pittura che tende a superare le lacerazioni esistenziali e linguistiche sulle possibilità del dipingere. La scelta che qui si sente almeno momentaneamente compiuta è quella di una totale immersione e coinvolgimento nelle diverse fasi costitutive dell’opera. Sensibile, concreto, corporeo, il colore pur nella sua tenue consistenza non si infiltra solo nel doppio spessore delle tele, ma, costringendoci a seguirlo nel suo itinerario, ci porta ad esserne noi stessi attraversati. Il fondersi dei colori primari, la loro presenza avvertibile anche nella germinazione di altri colori, sottolinea i diversi rapporti esistenti tra l’idea di colore e di pittura, la sua traduzione concreta e percepibile, il suo essere secondo differenti modalità. Le relazioni quindi che si stabiliscono nell’effettivo prodursi dell’opera mi sembrano indichino e riflettano quelle tensioni che ancora permangono e premono all’interno della pittura, certamente prima ancora nel suo essere pensata che nel suo divenire tangibile presenza”.

Bruno Bandini (1)

Dal catalogo mostra personale “La realtà dei sensi e lo stupore” / Palazzo Pretorio / Castell’Arquato, 1994

Se è vero quanto sostiene Nietzsche sull’ “irritazione e sul rancore” dei filosofi contro la realtà dei sensi, potremmo dire di aver attraversato tempi – tempi recenti – impregnati di filosofia. Il fatto di aver pensato, per quasi un ventennio, che l’ “artefatto” altro non sarebbe se non la pura base materiale per un “concetto artistico”, che potesse fondarsi un processo iconoclasta che termina in una obiektlose Kunst, ha condotto ad una riduzione della funzione della sensibilità, ad un impoverimento estremo di quelle pratiche sensibili che troviamo consegnate nella pittura. La critica ha spinto molto in questa direzione destrutturante, quasi che i problemi contemporanei dell’arte potessero davvero essere riducibili alla potenza normativa dei concetti. È stata rivendicata l’assolutezza di una conoscenza che procede per ardui paradigmi mentali, che privilegiano la semantica progettuale rispetto alla sintassi compositiva. In alternativa, una critica più spregiudicata ha tentato di riconferire dignità alla sensibilità ed alla pittura proponendo se medesima, la propria parziale lettura, come unico concreto termine di confronto: come vera opera capace di sostituire l”‘originale”. Critica militante e critica militare, dunque, come espressione di una grande paura del vuoto, di quel vuoto che può invadere le nostre relazioni con il linguaggio, con la natura, con la storia, hanno diffuso procedure che, oggettivamente, paiono aver abbassato il livello di responsabilità connesso all’autodeterminazione, alla libertà, sia artistica che critica. In questo modo si è insinuata la pericolosissima rinuncia al privilegio di essere legislatori di se stessi. O, detto in altri termini, abbiamo disimparato a pensare per distinzioni, a pensare per differenze, a pensare analiticamente. Ci siamo consegnati alla tranquilla consolazione che si prova di fronte all’idea di appartenenza, come se “omologare” significasse riconciliare la nostra caducità con valori superiori in grado di renderci ragione del caos dell’esistenza, del suo mutare, del suo incessante avvicendarsi. Eppure, un poco alla volta, ci siamo resi conto di quanto improvvida sia stata questa posizione; di quante confusioni – e di quanti obnubilamenti – essa abbia determinato. Nelle età di crisi, come è la nostra, ci riappropriamo di quanto surrettiziamente avevamo abbandonato l’opera, il solo valore che l’artista – in termini di idee e di forme – produce. Insomma, siamo ancora una volta disposti a ricercare la complessità e la ricchezza informativa che l’opera impone al nostro atto del “guardare”. Ridare spazio all’opera significa restituire senso all’esercizio della critica, alla scrittura. Ma, soprattutto, significa ridisegnare i contorni di una storia spesso sommersa, dove – come nel nostro caso – la pittura di Giancarlo Bargoni gioca un ruolo emblematico. Un’esperienza ultra trentennale intarsiata di conflitti, pensata in un isolamento a volte ossessivo, ma sempre rispettosa del conatus quotidiano che costringe alla pittura. Quasi la pittura fosse l’antidoto ad una malattia subdola e inquieta che contagia la nostra solitudine. Sia chiaro, Bargoni non è un “malinconico”, nè, tanto meno, un seguace delle culture esistenzialiste che, in varie forme, si sono affacciate in Italia a partire dagli anni Cinquanta. È però un artista che pensa l’esistenza, che riflette in termini pittorici, sulle sue dimensioni confusive, sui suoi scarti. Vivere in fondo è anche costruire campi di tensione che impongono scelte, separazioni. Ma vivere non è mai “ammiccare” a qualcosa, concedere una parte di sé a condizionamenti che non siano quelli del lavoro, quelli della pittura. Bargoni pare sostenere un assunto forse un pò desueto, ma non per questo meno degno di attenzione e di rispetto la pittura e il veicolo attraverso il quale l’artista riconduce ad unità – ad unità formale, ad “immagine” ordinata e compiuta – i conflitti e le aporie del fare arte. La pittura, in sostanza, è il processo che fonda quella che potremmo chiamare “eticità del lavoro”. Il termine “eticità” potrebbe indurre in facili tentazioni sociologiche per questo è bene chiarire che esso deve intendersi, invece, come vero e proprio asse attorno al quale si costituisce l’opera. Nulla di extra-artistico dunque, bensì, una volta tanto, la sfera dell’Ethos può essere calata in quell’intensità dialettica che presiede – e che risolve – le insidie della pratica artistica. Basta confrontare i “cicli” in cui la pittura di Bargoni si dispiega per scoprire il senso profondo di questo atteggiamento morale che è incapace di raggiungere la benché minima “dissimulazione onesta”. Tra la tensione poetica post-informale, tutta mirata alla definizione del colore come sostanza autonoma, degli ultimi anni Cinquanta, e quella costruttiva di “Tempo 3”, che pare invece concentrarsi sull’analisi fenomenologica del processo percettivo, della visività dei primi anni Sessanta; tra i respiri geometrici che investigano la natura impalpabile della luce, non più preoccupati di fornire descrizioni gestaltiche, quanto di misurare originali campi d’apparizione cromatica che eccitano e misurano lo sguardo, negli anni Settanta, e la stagione più recente, dove è un nuovo senso della stessa pittura che dev’essere ideato, prima lasciando fluire ritmi e corrispondenze tra gesto e materia, alla ricerca di armonie che rendano concreto l’infinito spazio della superficie, poi – nei lavori degli ultimi due anni – restituendo alla superficie pittorica una densità enigmatica, musicale, voluttuosa: ebbene, tra questi elementi, tra queste fasi, non c’è soluzione di continuità, non si dà frattura. Bargoni è pittore ed ha continuato ad esserlo a dispetto di tutto. Non ha ceduto a lusinghe ed a convenienze: ha scelto di complicarsi la vita. E, per quanto le complicazioni comportino dei rischi, la maturità di Bargoni ha raggiunto, per contrario, una profondità ed una stabilità invidiabili. La stabilità e la profondità del senso della pittura, vale a dire della sua inesauribile sensitività, della sua ineludibile sensualità, della sua fisicità immateriale. La realtà dei sensi è dunque anche la concretezza sensibile della pittura. Una concretezza che, specie nei grandi ed attualissimi studi monocromi graffiati non più dal pennello, ma violentati con strumenti di tortura che, comunque, non sono in grado di svilirla, di offenderla evidenzia l’amore solitario ed incestuoso dell’artista per una creatura fatta di colore e di costruzione. Proprio così: colore nella sua purezza, nella sua intensa presenza, assoluta; è costruzione, struttura. Una struttura che, adesso, non è più frutto di riflessione, di calcolo (come negli anni Settanta), ma sembra nascere spontanea. Come se la macchina celibe avesse reso possibile l’incontro di un “pretendente” con la “vergine” e l’avesse resa “sposa”. Anche qui risiede l’eticità della pittura di Bargoni: una pittura che investigando ripensa se stessa; una pittura che non è capace di dimenticarsi, di gettare un velo d’oblio sulla propria origine, sulle proprie profonde, innumerevoli origini. Ma anche sul termine “origini” possiamo essere condotti sull’orlo del fraintendimento: e ancora una seducente parola sdrucciolevole. Certo, è inevitabile, le “origini” di Bargoni, quelle memorie che e disposto ad indagare con la nobiltà sincera di chi è disposto a concedersi il lusso guerriero dello Stupore, sono molteplici. Ma, ancora, vorrei cercare di dire quanto sincero sia l’occhio dell’artista, quanto genuina la sua curiosità avida. Una curiosità che è rimasta immutata in tanti anni di lavoro, credo anche di sofferente applicazione. Oggi, come sul finire degli anni Cinquanta, Bargoni ci lascia partecipare, nell’immagine, di quell’essenza che non ci sarà mai più dato intravedere. Perché – come scriveva Rogare Callosi – “il prodigio è svanito: del miracolo non resta altro che la sorpresa che provoco”. Ma Bargoni non si è mai creduto in pace, dopo averci rivelato lo spazio sterminato del suo stupore. È sempre riuscito da arrestare l’equilibrio instabile, indefinito, di quelle qualità che sono degne di esistere, o che hanno avuto il dono di esistere. Qualità che, è bene ricordarlo, finalmente si sono separate dalle “cose”, da ogni possibile incanto naturalistico, referenziale. Tutto ciò che si esprime altro non è che pittura. È pittura, infatti, il luogo in cui provare l’insondabile, il vertiginoso, l’indicibile; un mistero che è penetrabile all’occhio dell’artista; uno sconvolgimento del  linguaggio e dello spirito che si dà non perché inaccessibile, ma perché ineffabile.

 

 

 

Bruno Bandini (2)

Dal catalogo mostra personale / Religo / Collegio Alberoni / “La realtà dei sensi e lo stupore “Piacenza, 2017

Il sacro… probabilmente1. “Gli occhi sono organi che servono a chiedere”. Paul Valéry. Non lasciamoci incantare. Quelle che vediamo sono croci, indubbiamente, e quale simbolo evochi la croce è un “fatto” che la tradizione e la cultura nelle quali siamo calati ha una riconoscibilità e un peso indiscutibili. Se quelle croci mantengono inalterata una valenza simbolica, non bisogna dimenticare che esse sono a loro volta una superficie sulla quale si annida in tutta la sua complessità un’apparenza: la pittura. E la nostra relazione con le apparenze è qualche cosa di estremamente profondo, come sembra dimostrare questo ciclo consegnatoci da Giancarlo Bargoni. Eppure, per quanto la qualità della pittura non risulti modificata dalla superficie sulla quale si esplicita, è in qualche modo messo in atto un processo che di quel gesto, del gesto della pittura, orienta il nostro sguardo. Ne disciplina l’esito, lo sospinge, gli chiede qualche cosa che vada oltre il compiacimento per la composizione dei segni e dei colori. Corriamo troppo, forse. Ma è qui che si annida lo “scandalo”. Bargoni, che riconosce le forme anche se la sua pittura pare avversarle, si confronta con una superficie che ha una forma terribilmente forte, “destinata” si potrebbe dire. Ma, allora, come sfuggire all’incantesimo della configurazione di quella superficie? Possiamo formulare solo delle ipotesi, la prima delle quali si chiama passione. La passione per la pittura e la passione che questa suscita. Un po’ come se attraverso di essa potesse compiersi l’operazione che Giuseppe Ungaretti invocava per la poesia: “popolare di nomi il silenzio”. Ogni tela, o meglio ogni “stazione”, è il riflesso che il mondo diffonde su di noi: un’apparenza che esprime, manifesta un nome, la possibilità di un linguaggio, un’apertura di senso che appassionatamente ricerchiamo. Bargoni, ancora una volta, attraverso l’atto del dipingere avvia un processo di individuazione e l’individuazione si mostra e così facendo si differenzia: ogni “stazione” vive della propria singolarità, si offre tal quale è. Eppure, in virtù del supporto formale sul quale quel gesto si rende esplicito, la singolarità che “accade”, che si mostra, istituisce un rapporto analogico con lo svolgersi delle altre “stazioni”, delle altre croci. Insomma, in questo caso, l’evento della pittura si traduce in porzione, in appartenenza a una classe … per quanto singolare quell’evento sia. Un problema di non facile risoluzione, come di non facile risoluzione è la complessità dell’analogia. Ognuna delle opere, ogni singolarità, è allo stesso tempo dentro e fuori della serie, dentro e fuori della classe. Schematizzando: eventi singolari (i gesti pittorici dell’autore) che si manifestano all’interno di una configurazione formale assolutamente certa, all’interno di un ordine, di un insieme, che non è la pura dimensione del dipinto, ma piuttosto un dispositivo che suggerisce un dialogo tra un’azione che si ribella ai limiti della forma e un’icona che si presenta come testimonianza dello scarto che sussiste tra giustizia e salvezza, tra mondo e eterno, tra storia e croce. La passione della pittura, per Bargoni, è indubbiamente anche questo confronto, questo dialogo che agisce sul limite tra due dimensione apparentemente inconciliabili, nel tentativo di evitare la scissione irrevocabile tra voce (la pittura) e significato (la croce), tra suono (del gesto e del colore) e senso (della superficie che accoglie), tra sapore e sapere, tra poesia e pensiero. Il gioco che lascia emergere quei colori carichi di vitalità, l’ “informale” di Bargoni – ammesso che quell’aggettivo si possa ancora impiegare – è la prova che mira a verificare la consistenza dello sguardo; la ricerca di tracce, di fruscii, della presenza umana e dei suoi oggetti. Lo spazio è abitato e in esso soggetti e oggetti convivono, ma la loro relazione non è stabile, definitiva. Lo spazio è una materia incerta, frutto di rapporti problematici per i quali il senso stesso della realtà può registrare torsioni impreviste che solo l’incantamento dell’immagine può registrare. Decostruire e accertare, questo sembra il compito imposto alla “creazione” dell’immagine, dove convivono dissoluzioni ed evanescenze, vapori colorati in cui le “cose” spariscono e concrezione dei valori materici che alle “cose” restituiscono un peso quasi fisico: dove la barriera tra sacro e profano, tra felicità e storia, sembra collassare. Ecco, allora, la seconda ipotesi che in questo contesto potremmo indicare: il sacro. 2. “L’intera pala d’altare, adesso lo capivo, parla di oscurità e di luce” John Berger Berger sta registrando le variazioni che la nostra percezione ha di fronte alla visione di un capolavoro – la pala d’altare di Gruenewald a Colmar – in contesti culturali, che investono l’intera complessità del nostro “sentire”, che si sono modificati nel tempo. Quella pala d’altare ha affascinato anche Bargoni, che ha avuto modo di conoscerla – e non solo o non tanto di “vederla” – perché la relazione tra oscurità e luce è una delle ossessioni della sua pittura, proprio in virtù del gioco di dissoluzioni ed evanescenze cui si accennava. È la radicalità della pittura di Bargoni, la sua capacità di “rinnovare dalle radici” lo sforzo del gesto, di darsi incessantemente tanto come nascita quanto come morte del linguaggio pittorico, che non vuol presentarsi né come trionfo della distanza da ogni illusionismo narrativo, né come concessione che mette in risalto i bisogni spirituali del vedente. Il quadrato magico verbale SATOR-AREPO-TENET-OPERA-ROTAS pare indicare il processo che anima la pittura di Bargoni, disposta tanto in senso orizzontale, istituzionale, dal passato al presente, quanto in senso verticale, dal presente al futuro. Una pittura “palindroma”, aperta alla reversibilità del tempo, dove conoscenza analitica e mito, esattezza e complessità molteplice, convivono. È la pittura che si osserva nel suo farsi, nel suo manifestarsi magico, fragile, sacro: una sorta di mare tumultuoso dentro il quale albeggiano soffi di luce, evocazioni di segni che non si traducono in forma, sforzi per riportare in superficie elementi di energia che destabilizzano il nostro sistema delle attese. Segni improvvisi e misteriosi, perturbanti, una sorta di rimosso che ritorna con forza ineludibile, che non si presenta come un’eccezione, un’intrusione impropria, una melanconica suggestione, ma piuttosto come presenza costante, contrassegno, fino a costituire la cifra, variamente declinata a definire altrettante impronte, “scarti che si imprimono”, come direbbe Didi-Huberman, veicoli che recano la memoria del contatto. Quasi l’artista si trasformasse in archeologo il cui sguardo disorientato, nudo ma stringente, si getta sul tenore e sul valore materiale e processuale delle immagini, sulla loro “poesia” che vuole profanare la segregazione “religiosa” che pretende di separare tra loro felicità e destino e restituire uno spazio “comune”, “pubblico”, non separato alla dimensione del numinoso, del sacro. Di un sacro inteso come sopravvivenza, come modello di temporalità che non si presenta nella sequenza delle “tradizioni”; che per questo ci costringe a un “montaggio” pieno di tagli, di spostamenti, dove anche i vuoti, le “assenze” dal quadro d’insieme, diventano importanti. Nessuna genealogia lineare della narrazione, ma piuttosto modalità di quella “conoscenza accidentale” – sempre citando Didi-Huberman – che vuole “saldare il debito con la generosità delle cose apparenti”. Il sacro è quella dissomiglianza dal mondo visibile percepito fino a quel momento; un’incertezza che rende evidente un corpo che comincia a prendere forma, a manifestarsi, ad apparire. Una forma di speranza, un frammento, un aforisma. Un sacro che, per altri versi, è il segno-grido cui accenna Edmond Jabès nel Libro della sovversione non sospetta: “poiché si scrive, sempre, lungo i confini indeterminati dell’essere” e ogni parola pronunciata lungo quel confine incerto e infido risulta carica di sovversione per la parola taciuta. Un segno-grido come le “croci” di Bargoni, dove ogni declinazione “religiosa” si dissolve, a favore di uno sforzo di mantenere un legame con il mondo, con un mondo che rischia di diventare sempre più un oggetto estraneo, un luogo ostile dove è sempre più difficile trovare spazio per intessere relazioni, comprendere le differenze, costruire nuove identità. Di fronte al rischio dell’allontanamento, forzato o volontario, dal mondo, il “sacro” di Bargoni si presenta come sovversione nei confronti del pessimismo, di ogni visione rinunciataria. E questo sacro, probabilme , è un antidoto che può rischiarare l’oscuro dei silenzi che ogni epoca attraversa.

 

 

 

 

Brenda Bacigalupo

Dal catalogo mostra personale / Galleria 37 / Palermo, 1994

Un interessante scritto di critica che individua come dominante il carattere sensitivo del fare di Bargoni e riconosce la sua La mia riflessione si sforza di procedere dall’interno delle opere con il massimo dell’empirismo critico. Quest’occhio interno mi permette di individuare le radici e le logiche non spontanee e non teoriche, ma tecniche e materiali, della creazione. Sono però certa che non sfugge, ad un osservatore un po’ attento, il soffio di selvaggia e irragionevole felicità che vibra nei colori e nelle polveri, la pregnanza di questi quadri che non restano adagiati e sopiti nei loro telai per non uscirne più, ma diventano immagini ostinate nell’affollarsi approssimativo e distratto della quotidianità. (“le déluge linguistique et figuratif ordinare”)

Germano Beringheli

“Carte colorate dal 1960” dal catalogo mostra personale / Lauro Iaccarino / Arte Moderna / Padova, 1989

Un breve e preciso saggio di Beringheli sulle carte colorate dagli inizi e sempre carissime a Bargoni.

“Una serie di belle e vive immagini di Giancarlo Bargoni, proiettate qui, per successive declinazioni, dagli ultimi anni ’50, per le ascendenze di un informale dalle cadenze sintattiche, istintive d’una giovinezza già densa e intensa di partecipazioni psicologiche. Allora con postille sentenziose e riflessioni, persino scrittorie, in un repertorio iconografico che, fosse d’oggi, lo si potrebbe dire protocitatorio. Iscrizioni che nelle paste cromatiche si insinuavano segno centrale calcolato e ben distribuito, come fossero echi e frammenti d’un canto, d’un sentimento, di un allarme, persino: braccia vegetali e vegetanti come fili d’un discorso fatto di impronte, di vibrazioni trasmesse dalla maestria pittorica al disegno. Di Bargoni, della sua pittura, e chi ne conosce gli sviluppi concettuali e formali può meglio intenderne il senso, la figura fondante e nell’individuazione di un linguaggio specifico che risale lungo la tradizione dell’astrattismo canonico e che appare alleggerito da una tecnica di stesura delle trame e degli incroci cromatici. Un leitmotiv del fare pittura tenendo conto del dinamismo del gesto e di quello dei colore; verso una trasfigurazione della luce in chiave tecnologica, mai naturalistica. E qui vale insistere, perché protagonista non sono le referenzialità ostentamente analogiche o metaforiche di un clima altro, rappresentative di una intelligenza percettiva commisurata in qualche modo al veduto. Semmai c’è un “veduto”, alle scaturigini delle sue “carte”, esso e quello dell’arte che nasce dall’arte, in particolare della pittura che specchia la pittura, oggettivata sensibilistica, luogo di animazione di una superficie che accoglie gli eventi della pittura. Si potrebbe semmai, per queste “carte”, stabilire un rapporto con l’orditura musicale quale viene espressa su uno spartito; alla loro messa a punto, l’equilibrio armonico del tono o del timbro potrebbe corrispondere; nella misura di un percorso che dalla essenzialità materica degli strumenti pittorici raggiunge, nell’immagine dipinta, un equilibrio di pura forma. Con le stesse allusivi, gli stessi echi ritmici fine all’esaltazione composita della materia e del colore, fino al raggiungimento d’uno spazio-luce aperto di trasparenze, progressivo di allusività, di affinamento delle sequenze visive, di spiragli aperti al barbagliare dei segni e del colore. Lasciando all’osservatore il confronto con un’esperienza particolare di rilettura e di percezioni ulteriori nello schermo-quadro percorso da flessioni ora contemplative ora immanenti della centralità espressiva di fondo. Dalla pittura per la pittura, per l’attingibile poetico da essa scaturisce”

Rossana Bossaglia

Dal catalogo mostra personale / Galleria Rinaldo Rotta / Genova, 1984

Un interessante scritto di critica che individua come dominante il carattere sensitivo del fare di Bargoni e riconosce la sua esaltazione appassionata del mestiere di pittore. “Dal momento che è artista al di sopra di ogni aspetto – cioè solitario e indipendente, ma quel tanto che basta perché egli preservi le sue zone franche dalle mormoranti sollecitazioni della platea, e non dunque per crearsi un alibi di inattualità, cioè non per assumere atteggiamenti smancerosi di isolato a tutti i costi: coerente ma con judicio, e dunque con legittima ripugnanza degli smaniosi voltafaccia ma anche delle fedeltà oltranziste, che sono per lo più segni di pigrizia e ripiegamenti nella maniera: sistematico, nel senso di applicato pervicacemente all’elaborazione mentale e tecnica delle sue opere, in un ruminare scontroso e continuo, infaticabile e critico; ma non così sistematico da negarsi estri, soprassalti e improvvisi slanci del cuore-: dal momento insomma che è un “professionista” – per usare un termine abbastanza grossolano ma utile a separare l’attività artistica come ricerca del fascino ambiguo e approssimato della vita panestetica – ci consente in modo esemplare un’indagine sulla possibile evoluzione di un linguaggio di matrice progettuale in un momento della cultura che si pone programmaticamente al di qua degli sperimentalismi. Bargoni affronta il discorso: in altre parole, non affetta indifferenza verso una situazione dove si pretende che prevalgono i fatti istintuali e contemporaneamente i depositi della memoria; vi si misura, e misura, tastando il polso della situazione quanto di strettamente emotivo e trepidamente eccitato, di turbato e ispirato, di misterioso e fervido si celi, da decenni, nel lavoro controllato della pittura geometrica, in quello concettualizzato della ‘”pittura pittura” (e, per converso, aggiungerei, quanto di calcolato e frigido presieda alle cosiddette formule liberatorie del profondo, oggi diffuse). L’iter di Bargoni è chiaro ed è esemplare in modo quasi didascalico (mi perdonerà l’aggettivo poco gratificante): non nel senso che sia meccanicamente prevedibile, ma che tutto vi torna e ogni volta la freschezza della sorpresa – sempre in moto nell’incontro con l’invenzione artistica – e anche il piacere di ritrovare il filo di un discorso ininterrotto. Il pittore è figlio dell’informale, appartiene a quell’o-rientamento che, nella reazione all’assoluta non-progettualità, sceglie non la strada concretista e cibernetica, ma la strada dell’indagine a caldo sugli stimoli psichici proposti dal colore-forma. Dall’esperienza basilare di Tempo 3 esce con un’acutissima capacità di individuare le diverse tensioni degli effetti cromatici e una disposizione a tradurre in termini di colore assoluto, per lo più accostato in campiture geometriche, ogni indagine sia di tipo esplorativo: le cose che vede, o le opere d’arte su cui indaga (si pensi alla sequenza su Galla Placida del ’62), egli le interpreta e sintetizza attraverso accostamenti di zone colorate. Il lavoro ha una componente sensitiva – ad alto potenziale emotivo, specie nel progredire del tempo – che si rende evidente soprattutto nei suoi aspetti metrici: sia nelle stesure sottili di materia cromatica, sia in quelle più grasse, la fisicità del colore è parte integrante dell’operazione e nega al linguaggio, che ha aspetti segnici molto intellettualizzali, ai limiti della scrittura, una valenza puramente simbolica. Così va detto per il tema della sovrapposizione e stratificazione di diverse zone colorate, con effetti di fusione cromatica, ma assai spesso di trasparenze, o slabbrature e sgretolamenti delle sovrastanti stesure: c’è in tutto questo una componente di compiacimento mentale, quasi l’esibizione di una grammatica tecnico-compositiva; ma c’è, denso e dolcissimo, il rapporto manuale con la tavolozza, il piacere della manipolazione dei pigmenti – prova ne è che sono tutti pigmenti bellissimi, colori luminosi e seducenti, accostati con tenerezza o con eccitazione (ma il gesto non è mai fine a se stesso, il gesto è dietro l’opera e l’opera se ne è ormai staccata e vive da sé). La penultima produzione di Bargoni, ormai indirizzata all’uso più sontuoso della tavolozza che non la produzione precedente (con l’accantonamento dei pur bellissimi acquarelli per la realizzazione di oli densi e brillanti) ne castigava l’esuberanza entro trame quadrettate (ma proprio la quadrettatura rivelava tracce di fermenti nascosti del colore, brulichii sottostanti), che variamente producevano effetti di una larga trama a telaio o di un tessuto a disegno scozzese. Da due anni a questa parte egli va studiando una serie di variazioni sul tema di piccoli elementi verticali, irregolarmente rettangolari, talora sottili come fili o festuche, talora più corposi e geometrizzati, in alcuni casi giocati a trame diverse (sulle filettature si appoggia un graticcio a quadratini di differente colore); dove sempre più remoto appare il rapporto con l’informale o comunque è messo sempre più da parte l’effetto di sensitività globale, magmatica, e i vari livelli del colore-forma convivono, si sovrappongono, si frammischiano, ma rimangono distinti, percepibili come situazioni compiute, quasi che gli strati della coscienza – gli strati delle emozioni, delle individuazioni percettive, dello stesso pensiero – siano analiticamente determinati e ricomposti in un insieme, ma sempre controllati; con una puntigliosa dimostrazione del rapporto tra procedimento tecnico e intuizione lirica. Bargoni risponde alla generica proposta di automatismo fantastico con l’esaltazione della funzione specifica dell’arte: di rendere intelleggibile la componente fluttuante dell’emozione, di additarne polivalenze e tensioni riducendole a ritmo; di essere dominio, dunque non abbandono. ma c’è naturalmente molta gioia in questo variato vibrare delle sue immagini. Scriveva l’artista qualche anno fa che i suoi modelli – remoti, simbolici, predilezioni del cuore – erano da ricercarsi in un certo impressionismo, in Matisse. Guardando questa sua tastiera penso a Kupka: alle radici dell’arte moderna, dell’avanguardia, dell’astrattismo. Come suggestione storica, s’intende. Per il resto, Bargoni è più che mai nel suo tempo, a testimoniare fede nella pittura, contro ogni cinismo”

Pier Giovanni Castagnoli

 Dal catalogo mostra personale alla Sala Comunale d’arte contemporanea / Alessandria, 1977

 Castagnoli esamina con acutezza le sottili novità nel linguaggio pittorico di Bargoni in una fase di ricerca particolarmente severa e austera sui nudi elementi della pittura. C’è un passo di una bella presentazione scritta da Marisa Vescovo per una personale di Bargoni che merita di essere riportato in apertura di discorso, e non soltanto perché l’osservazione che contiene, tra le tante interessanti che punteggiano quel testo, è forse quella che meglio coglie il significato della ricerca dell’artista, ma perché essa più in generale richiama, sia pur implicitamente, ad un obbligo che la critica è tenuta ad osservare, laddove voglia correttamente analizzare e giudicare il lavoro di chi oggi opera sul versante della “pittura-pittura”. Scrive la Vescovo: “la pennellata lavora per “sottrazioni” e, con severa sorveglianza sintattica, contrae la materia, liquida, alonata, magra, povera, per evidenziare invece pulsioni “minime” dello spazio e della cromia che confina con una processualità in divenire delle strutture geometriche…” Si tratta di un commento assai stringente, che sottintende per di più un importante corollario; anche se questo è facilmente deducibile, non sarà inutile tentare di fissarlo; potrebbe suonare grosso modo così: se il pittore procede per successive riduzioni e restringe progressivamente l’arco delle possibili significazioni per approfondirle sempre più nei loro termini essenziali, non già i segni più “macroscopici”, bensì i meno appariscenti, quelli più riposti entro le pieghe della pittura saranno i più densi “significati”-; solo, quindi, chi questi segni sappia riconoscere ed interpretare potrà ritenersi capace di intendere appieno il lavoro dell’artista e potrà dire in tutta tranquillità quale valore vi annetta. Ma il medesimo problema, che presenta la ricerca di Bargoni, si ripropone, immutato nella sostanza, presso chiunque operi per “sottrazione”, presso quanti, riportata l’indagine all’analisi della grammatica elementare del dipingere, proprio agli attributi minimali del segno affidano le sorti dell’opera. Se dunque l’occhio dell’artista si è fatto più aderente alla superficie, se ancor più vigile di quanto sia mai stata è oggi l’attenzione che rivolge, e nel piano e ai diversi segni che lo animano, altrettanto dovrà fare il critico e, accettando di seguire la pista che il pittore ha tracciato, dovrà indugiare nell’analisi con la sua stessa cura puntigliosa, con lo stesso scrupoloso rigore. È questa una raccomandazione che, se è inutile rivolgere a chi avversa il nuovo programma della pittura in base a pregiudizi contenutistici, perché tanto egli è condannato a restare cieco di fronte a novità così sottili del linguaggio pittorico, va invece fatta a quanti, ritenendo esaurite le possibilità di una pittura “pura” – di una pittura, vale a dire, che intende predicare soltanto se stessa -, credono che solo lo sconfinamento dalla dimensione tradizionale dell’opera e il ricorso alle moderne tecniche di comunicazione possano ridare slancio e credibilità alla pratica artistica. È questa una posizione critica che, seppur ricorre talvolta, all’atto del giudizio, al criterio troppo meccanico del “dé jà vu”, muove da una considerazione irrefutabile, qual’è quella che vede discendere dalla progressiva accelerazione dei progressi comunicativa e dalla radicalizzazione del dibattito artistico contemporaneo una sempre più rapida obsolescenza dei dati acquisiti, e tuttavia da questa premessa trae conseguenze inaccettabili non appena passa a ipotecare, col dichiarare ulteriormente impraticabili determinate esperienze, un futuro che non è dato in alcun modo di prefigurare. È l’errore che han commesso coloro che, avendo decretato qualche anno addietro la fine della pittura “pura”, si vedono costretti oggi ad ammetterne la vitalità, una vitalità testimoniata tanto dalla novità delle dichiarazioni teoriche, quanto da quella degli esiti formali. Ma quest’ultima, per poter essere pienamente valutata, esige una revisione del metodo visibilista e una nuova messa a punto complessiva della strumentazione critica: correzioni, queste, senza le quali l’analisi rischia di arrestarsi al livello dei rilevamenti ”macroscopici”, e perciò all’epidermide del dipinto, senza mai giungere al suo sistema nervoso allo strato più attivo e sensibile che ne denuncia la validità. E per tornare al caso Bargoni: senza praticare accertamenti di tale natura, senza questo tipo di scavo, credo che difficilmente si potrà cogliere per intero la complessità semantica del suo lavoro, la ricchezza della tastiera espressiva, la varietà dei registri formali, che la “monotonia” solo apparente della iterazione dello schema quadratico nasconde; e forse proprio per la mancata disponibilità a guardare oltre la prima pelle del dipinto è all’origine di un certo giudizio svisante apparso recentemente in un’eco di stampa, in occasione dell’ultima personale milanese dell’artista. Per rendere giustizia al lavoro del genovese bisogna dunque avere occhi più sensibili al fascio delle relazioni che si instaurano, all’interno dei dipinti, tra i vari elementi compositivi. Tali relazioni, che sono tanto più sottili e sotterranee, quanto più l’opera è poeticamente raggiunta, mutano infatti, com’è naturale, via via d’aspetto ma, comunque si organizzano, individuano sempre il nocciolo del problema espressivo dell’artista che consiste nel tentare di conciliare istanze tra loro contraddittorie quali sono: metodo e improvvisazione, ordine progettativo e libertà esecutiva, controllo razionale e impulso emotivo. La tela si trasforma così in luogo di contrasti operanti, in un campo ove si fissano, nel costante trasparire delle diverse tappe del processo formativo – dalla traccia della squadratura primitiva, fino all’ultima velatura -, le differenti ipotesi via via emerse e verificate, le varie soluzioni presentatesi nel progredire del lavoro. Ecco quindi che il quadrato ossessivamente ribadito e continuamente negato, si carica di un valore simbolico: la sua figura antidinamica, chiusa dai quattro lati ad esprimere la perfetta stabilità, assurge a ideale modello dell'”opera”: ma si tratta di un modello che viene esibito con ironia: della figura geometrica che più compiutamente incarna la fiducia progettuale dell’astrattismo storico non resta nelle tele di Bargoni che una consunta veronica. Il colore infatti incrina irreparabilmente la superba sicurezza di quei contorni, li aggredisce da ogni parte e infine sostituisce a quella spazialità così perfettamente compatta, la propria pulsante mobilità di materia luminosa. La precarietà subentra così alla stabilità, la mobilità alla fissità, la nuova dimensione dell’opera a quella del passato. Ed è una dimensione processuale, nella quale il singolo raggiungimento conta come uno dei tanti momenti di riflessione, di analisi, di verifica, che, collegati fra loro, messi in ”serie”, formano la ricerca del pittore, l’opera vera, la sola forse che gli è dato compiere. Ecco perché il quadrato di Bargoni, rinasce continuamente sulla tela, ecco perché si può prevedere che seguiterà certo a dimorarvi. La mia riflessione si sforza di procedere dall’interno delle opere con il massimo dell’empirismo critico. Quest’occhio interno mi permette di individuare le radici e le logiche non spontanee e non teoriche, ma tecniche e materiali, della creazione. Sono però certa che non sfugge, ad un osservatore un po’ attento, il soffio di selvaggia e irragionevole felicità che vibra nei colori e nelle polveri, la pregnanza di questi quadri che non restano adagiati e sopiti nei loro telai per non uscirne più, ma diventano immagini ostinate nell’affollarsi approssimativo e distratto della quotidianità. (“le déluge linguistique et figuratif ordinare”).

 

Gianni Cavazzini

Dal catalogo mostra personale “Oli e tempere” / Studio Centenari / Piacenza, 1997

Visitare lo studio di Giancarlo Bargoni (con lo sguardo che, a brevi intermittenze, svaria dalle ampie vetrate sul profilo antico di Castell’Arquato) vuol dire portarsi a ridosso del problema centrale della modernità quello di una pittura che non impresta dal reale e che, al tempo stesso, si dispiega nella sua onginaria, e splendente, verità. Bargoni estrae le sue tele dai contenitori con la sensibilità vibratile di un rabdomante: ed escono bagliori di colore e densità di materia. Sono, questi, gli elementi primi di un dissidio in termini che l’artista vive, ormai da anni, con la coscienza intrepida dei chiamati alla poesia pura. Bargoni è così: fiero delle sue certezze, impermeabile alle lusinghe di un sistema che si piega alle logiche più distorte del mercato. È, caso mai, proprio il mercato che torna da lui, dopo aver provato, sulla sua pelle, le cadute clamorose di tendenze sovvenzionate dal gusto (e dal cattivo gusto). La sua storia (di Bargoni) è semplice e chiara. Inizia verso la fine degli anni cinquanta, quando la poetica dell’informel, come vuole il termine coniato da Tapié, già si è affermata anche in Italia: come ricerca sulla materia (e lo fa Burri con i suoi sacchi e i suoi legni), ma anche come indagine sulle possibilità inesplorate del segni e del colore (a Genova, dove Bargoni si è formato, lo fa Scanavino, con le sue proiezioni verso la sfera del profondo). Per Bargoni cè la scelta della vita. È un cammino che attraversa gli anni della nostra recente storia dietro la guida imperiosa dei valori specifici del dipingere. Nelle opere dell’Ottanta, che qui vengono esposte a scopi documentari, si può vedere l’immersione nella densità della materia (da rigare, magari, con la forza primogenita delle dita). E così procede, il viaggio di Bargoni, nella sua sufficienza di ragioni ideali: quella di fare, e solo, pittura. Escono, ora, dai capacissimi contenitori, le tele a grandi dimensioni: e sono le misure preferite da Bargoni, entro cui i dilatati confini si può esprimere tutta la libertà del gesto. Alla base di questi quadri, così belli e vibranti, c’è un’idea che l’artista ha trattenuto a tempo lungo nella sua interiorità: per decantarla di ogni impurità teorica. E quando i pulviscoli, sia pure minimi, si sono depositati, e in modo definitivo, nelle riserve della memoria, Bargoni passa alla fase pratica del suo lavoro di pittore. Estrarre le opere dai depositi dello studio vuol dire, per Bargoni, rivivere, al presente, le fasi della sua storia. A chi guarda resta il compito di interpretare i materiali costitutivi di queste realtà poetiche che sono consegnate al destino dell’arte. L’emozione, allora, si fa forte. Viene in mente Proust, là dove dice, in un brano della sua Recherche, che non basta compiere un pellegrinaggio nei luoghi un tempo abitati per far tornare il passato. Così dinanzi ai quadri di Bargoni, a quelli eseguiti negli anni trascorsi, bisogna compiere una sorta di tramando visivo verso 1e creazioni del presente: per assaporare, insieme a lui, il gusto di una nuova, e illesa, frontiera creativa, che appare ora, come si può vedere dalle ultime opere, proiettata verso umbratili miraggi d’Oriente

Germano Celant

Da Casabella 1967 / Rivista Architettura n°315 / Dal catalogo mostra personale / Rinaldo Rotta / Genova 1967

... Dall’elaborazione mentale e visuale si giunge alla ricerca del procedimento tecnico che trasferisca il dato percettivo in forma oggettiva ed oggettuale, siamo arrivati alla “strutturazione oggettiva del colore, in quanto entità e significato autonomi, cioè indipendenti da puri e semplici rapporti formali” (Montana). IL quadro si aggetta. Il colore assume un’entità tridimensionale. Il piano è sul volume, prima virtualmente presenti, si scindono, un’ulteriore trasformazione spaziale, un arricchimento del motivo, trasferito prima dall’orizzontale al verticale e ora dal piano al rialzato. Il succedersi dei ritmi, col passare ad un’altra dimensione immette un nuovo fattore, la luce, che funge da elemento aleatorio e sensibile. Una lieve deviazione ottica di ordine casuale che rende possibile la più raffinata lettura e fruizione estetica del lavoro di Bargoni. Un quid di impreciso e di indeterminato che, presente o nell’elemento materico, o nell’asimmetria-simmetria ed ora nella disarmonia luminosa, distingue la ricerca di rapporti e ritmi cromatici di Bargoni, allontanandolo da qualsiasi moda espressiva..

Claudio Cerritelli (1)

Echi della natura, tracce dell’anima / Milano, 2002

 Da quando, intorno al 1980, si è definitivamente staccato dall¹esperienza geometrica, Giancarlo Bargoni ha trovato i fondamenti della sua ricerca nell¹atto stesso del colore, nella materia come identità profonda del dipingere, evento che emerge dalla memoria come pura presenza fisica. Le fasi che Bargoni ha affrontato in questo viaggio dentro la verità del colore sono molteplici e potrebbero essere sintetizzate nel passaggio dalla fisiologia dinamica del gesto ad una più interna e stratificata vibrazione della forma, intesa come dialettica di forze contrapposte e instabili. Già sul finire degli anni Ottanta l¹artista avverte una diversa fisicità della materia, abbandona il flusso epidermico degli elementi pittorici per entrare in contatto con la costruzione tattile del colore che esprime il piacere denso dei rilievi, l¹urto del colore che determina accenti plastici. Il legame interiore della natura guida Bargoni in questo tumulto di gesti, nel senso della vista e del tatto, con lo sguardo emozionato della visione mentale del paesaggio: la luce del sole, il colore metallico del mare, i segreti della terra buia, gli abbagli che le forme sprigionano nel corso del tempo, le memorie del vissuto ma anche i presagi di visioni a venire. Tutto serve all¹artista per farsi sedurre dalla materia e per sconfinare nelle risonanze del pensiero attraverso lo stupore del colore, perseguendo un modo di sentire la pittura come ³luogo in cui provare l¹insondabile ha scritto Bruno Bandini (1994) il vertiginoso, l¹indicibile². E¹ proprio negli anni Novanta che Bargoni dipinge tele decisive per un artista alle prese con la purezza della vibrazione cromatica, per un pittore illuminato dalle luci della materia, capace di sprofondare nei grandi gialli o nelle ombre del nero, nel rosso rovente o nel silenzio del bianco, nel sapore acre delle contaminazioni o nelle limpide trasparenze del verde. E¹ il momento in cui il cammino della pittura diventa una sfida visionaria, un¹aspra contesa di azioni e reazioni, una sorgente di conflitti matrici che l¹artista affronta a viso aperto, con spirito d¹avventura. Bargoni va così esplorando le sonorità splendenti del colore, le accensioni e i tormenti della materia, le fughe e le ossessioni intorno al miraggio dell¹altrove, quell¹insieme di turbamenti che solo la pittura sa trasformare in visione che non è mai appagata del suo stato desiderante. Inventore di vertigini spaziali, il pittore si dedica a queste tentazioni senza che nulla possa distoglierlo dal cuore delle passioni cromatiche, del suo essere immagine sospesa e, al tempo stesso, radicata nella profondità della superficie, dove ogni veemenza ritrova la sua origine. In questo processo incessante risiedono le possibilità di movimento che il colore offre alla vita delle forme, inutile chiamarle astratte o informali, quello che conta è che esprimano la trasfusione del pensiero nel corpo della pittura, la vitalità dell¹immaginazione che spinge la dimensione del tempo e dello spazio a modificarsi, reciprocamente. E¹ come se Bargoni sapesse perdere di vista i consueti punti di riferimento della realtà per trovare nel colore una spazialità tattile non misurabile, una percezione della materia che deriva direttamente dalla sua qualità fisica, dal fatto che è lo spazio che scaturisce dal colore e non il colore che rappresenta lo spazio.L¹immagine trae nutrimento dagli stati d¹animo e dalle tensioni mentali che la materia pittorica provoca nel suo darsi per intero, senza che alcuna fase del dipingere rimanga separata dall¹impulso iniziale, da quella fonte interiore che sollecita una totalità di cui il colore è protagonista assoluto. La sensazione è che lo spazio cresca su se stesso, superi i suoi stessi limiti, torni ad essere primario stratificando la sua durata attraverso gesti perentori che l¹artista sente in modo particolarmente intenso perché sono ogni volta il margine di invenzione dell¹immagine, la soglia dell¹altrove. Sulla superficie scivolano senza pentimenti segni che si aprono e si chiudono fino ad inghiottire lo sguardo nelle mescolanze del colore, tracce veloci di qualcosa che si è consumato ma anche sostanze in espansione, essenze di un dinamismo che è impossibile ripetere. Qualcosa slitta sempre nell¹evento del colore e non è mai uguale a se stesso, il gesto muta direzione, attacca il centro o i margini, cerca continuità da un¹opera a all¹altra e ritrova sempre le proprie impronte. Che senso ha concentrarsi, istante per istante, sull¹equilibrio asimmetrico dell¹immagine, racchiudere l¹energia del colore in una forma che ne asseconda il desiderio? Questo avviene perché la pittura di Bargoni  è stato Gianni Cavazzini a dichiararlo (2001)  ³è lì a significare solo se stessa: con la magia di un evento raro e prezioso che rinserra energia e bellezza nello scrigno della pittura: al di là di ogni limite di tempo e di spazio, come vuole la durata poetica dell¹arte vera². L¹approdo a questi eventi magici del colore comporta vari modi di trattare la materia, di gestire diverse fasi di lavoro che si sovrappongono prima che le stratificazioni possano ricomporsi in un ordine pittorico statico, improbabile per un tipo di pittura che mira a superare il perimetro della superficie attraverso forti consistenze di pigmenti. Del resto, Bargoni ama che nell¹immaginare rimangano in evidenza scie di materia e leggeri pulviscoli, gocce e filamenti che vanno sgranandosi con effetti spontanei, in modo che la pittura non si arrenda al rischio di eccessiva compostezza formale. Semmai, l¹equilibrio sta proprio nell¹affrontare il senso debordante del fremito cromatico con strutture gestuali che bloccano l¹immagine in alcuni punti, dai quali far galleggiare grappoli di colore dall¹aria sospesa e imprevedibile. La natura morbida delle terre sollecita segni che graffiano la pelle della superficie come se da sotto il bianco qualcosa fosse sempre in attesa di venire alla luce, anche con minimi cenni, lasciando leggere presenze di colore divagante che si sottrae all¹intera percezione dell¹opera. In queste immagini si possono cogliere un buon numero di analogie con la pittura contemporanea, coltivate senza seriosità ma con infinito piacere nell¹annodare i fili della pittura a quelli di altri autori, affini alla propria concezione, anche se lontani nel tempo e nella memoria. Lo aveva già indicato Brenda Bacigalupo (1998) a proposito di un gruppo di carte colorate degli anni Ottanta che suggerivano ³ricordi analogici: il blu è oltremare ma ha anche la visibilità di certe colature di zaffiro e turchese in Sam Francis, il giallo è cadmio e ha anche qualche bagliore di ambra da DE Kooning, il rosso è cinabro con la pastosità corallina di alcuni spazi di Gouston². Queste analogie sono stimoli suggeriti dai valori cromatici che Bargoni persegue al di là di ogni citazione intrigante, da Rembrandt a Tiziano  è stato ancora detto  da Turner a Monet, fino a Wols o Fautrier, percorsi del colore che esaltano il senso incombente della materia. Basta osservare questo recente gruppo di tele per rendersi conto del fatto che Bargoni guarda alla pittura per via di umori interni del colore, per indecifrabili tramiti che possono far pensare ad un tipo di spazialità che ha diversi punti di arresto, con la sensazione di non averne alcuno. Oppure fa pensare a quel modo di trattare il colore come fusione di effetti plastici attraverso pennellate che fendono lo spazio, lo scuotono con impulsi continui, lo spingono dal centro verso i margini e viceversa. Di memoria in memoria la pittura ritrova sempre la forza di venire alla luce, anche quando la mente incontra l¹universo insondabile del buio, il brivido dello smarrimento di fronte a ciò che non si conosce ancora, inquietudine per quelle forme invisibili che il colore rivela, talvolta come non lo si sarebbe potuto immaginare, prima di dipingere. ³Rivelazione di un evento, di un sentimento, di un¹idea², ha notato Elena Pontiggia (1998), ³ma rivelazione, soprattutto, della pittura². E non potrebbe essere diversamente per un conoscitore della luce pittorica come Bargoni che costruisce le condizioni perché essa sorga e mantenga la sua qualità vibrante durante il fluire della materia, con quei bagliori propulsivi che trasmettono veemenza ma anche rarefatto stupore. Nel ciclo di opere pubblicate in questo volume tornano a farsi sentire i profondi legami con la natura che non hanno mai smesso di tacere, anzi si sono fatti sempre più intensi e totalmente disancorati da prestiti descrittivi. Tra natura del colore e l¹evocazione del paesaggio si stabiliscono legami di luce che spingono la vista a captare illusioni solari del giallo, oscurità segrete delle terre, solennità di tramonti o sensazioni estatiche dei bianchi, prima che giunga l¹ora dei grigi. Attraverso frammenti che valgono totalità, seguendo tracce che risalgono alla visione unitaria, il percorso di queste tele è una conversazione del pittore con i temi e i modi della sua pittura, un viaggio del colore all¹interno dei suoi sensi e automatismi percettivi: e nulla è dato per scontato perché l¹identità stilistica di Bargoni è una lunga conquista che si rinnova ad ogni opera, quasi fuori dal tempo. Il fatto stesso che l¹artista abbia deciso, da oltre un decennio, di non datare le opere dovrebbe far riflettere sulla dilatazione che la sua ricerca sta assumendo, quasi a voler scaricare ogni scintilla espressiva nel luogo dell¹inconscio, nel territorio indeterminato dell¹immaginazione dove il tempo misurabile non ha ragione d¹essere, è pura convenzione, va dunque cancellato. Queste opere sembrano sfidare le categorie mentali legate ad un concetto evolutivo del linguaggio, l¹artista le vive in una prospettiva interiore che le rende quasi allucinate, sospese nel sentimento del vuoto, echi della natura, tracce dell¹anima, schegge di emozione che fanno parte di un¹unità che solo la pittura può dare. Se il tempo scorre verso una direzione definita, lo spazio della pittura va per conto proprio, realizza le sue ragioni da un punto di vista non misurabile, trae la sua forza dalla capacità di sottrarsi alla determinazione del tempo. Non si tratta di correre né avanti Né indietro, ma di guardare la propria identità come totalità, somma di esperienze precedenti che servono a dipingere ancora, ³pittura pensiero dominante². Si ha inoltre l¹impressione che tutto ciò che Bargoni capta durante la quotidiana percezione delle cose sia immerso nell¹attesa del colore, nel miraggio della propria pittura che gli fa concepire, quasi con indifferenza, ogni altro modo di comunicare come privo di senso. In effetti, egli appartiene a quella razza di artisti appartati ed estranei alle ultime sirene dell¹attualità, pittori che non sentono la crisi dell¹arte né tanto meno quella della pittura perché non può essere in crisi la possibilità di desiderare la vita del colore, lo slancio verso la fisicità dell¹immagine, la consapevolezza che dipingere è l¹unica autentica motivazione in un mondo che ha perso di vista il valore poetico del comunicare. Fare pittura comporta per Bargoni un destino che lo vede idealmente vicino ad altri pittori italiani che sentono la stessa passione e orgoglio della pittura, pittori come Ruggeri e Bendini, e tutti quelli- davvero pochi- che possono essere considerati al di fuori delle attuali banalità della pittura. Questo ruolo quasi aristocratico gli deriva dal non voler più dubitare di sé e del suo mondo pittorico e, soprattutto, da quell¹insofferenza verso lo spirito superficiale del presente che lo fa sentire a suo agio solo con la pittura, ma che sia pittura senza mascheramenti, pittura che parla di pensieri segreti, di ritmi del cuore e di limpide emozioni: pittura senza pentimenti e patimenti, pittura che è felice di esistere.

Claudio Cerritelli (2)

Dal catalogo mostra personale Galleria R. Rotta / “Bargoni Puro Pittore”/ Genova 1990

Leggere la pittura è un lento percepire tutto nel luogo che chiama altri luoghi, luogo muto di una lingua che nasce muta e parla a tutti, proprio perché non si tratta di comunicare un’immagine ma di mostrare il punto in cui si spalanca una possibilità di sguardo è tutto e niente. Il luogo è sempre invisibile. Il colore gli somiglia e il pittore non pensa ad altro che a stratificare sul piano della tela gesti di stupore immediato, che rinviano al progetto di una pittura oltre il confine della sua comprensione. Pittura pensiero dominante, si era detto qualche anno fa, con piena consapevolezza del lavoro sull’immagine come sorte tormentosa e felice dell’artista, Bargoni non va sciupando nulla dell’incontro quotidiano con la pittura, procede dentro lo slittamento del colore che esige e reclama un corpo, una consistenza, un nucleo di immaginazione non dileguata. I quadri si accumulano e l’ultimo dipinto è sempre quello che promette nuove verità, i mutamenti invisibili, le direzioni certo inaspettate dentro il pensiero immutabile della pittura. Nel luogo appropriato della superficie Bargoni cerca l’esistenza assoluta del colore, la materia espansiva di suggestioni formali che non restituiscono figure ma si traducono in energia e luce, di valore proprio e senza necessità di aggettivi figurali. Rispetto alla pittura mobile e vibratile del triennio 86/88 va oggi precisandosi un’idea di costruzione che sposta l’attenzione dal flusso dei gesti pittorici ad un più accentuato blocco formale. Vale a dire: dallo scorrimento di filamenti e di particelle pittoriche ad un aspetto strutturale dell’immagine, che ora si da come momento formativo. Il colore-materia rafforza la sua fisicità, definisce, plasma presso la superficie, sa essere evocatore di natura ma soprattutto inventore di un tono profondo che svela una natura a se presente, carica d’una propria immanenza. La pittura di materia che Bargoni persegue e una spinta persistente verso un’azione che non esaurisce la propria pulsione cromatica. La memoria della pittura si congiunge al piacere del fare dove i margini di originalità stanno nell’articolazione del colore nel valore poetico di ogni singola opera, in definitiva: nella presenza della pura pittura. L’impegno sta, dunque, tutto dalla parte del ruolo del pittore a cui Bargoni crede come a un destino di vita, immagine forse romantica, che esprime in pieno il rapporto con questo linguaggio che separa l’artista dalla realtà, lo rende impaziente, straniato, tenero e impaurito ma anche portatore di un’altra luce, un’altra soglia. Da questa posizione di fede si può capire il carattere di una pratica pittorica che sposta lentamente il repertorio di forme nella dimensione della profondità, nel gesto per il gesto, ma che sia gesto interno al miracolo ininterrotto nel dipingere, non semplice meccanismo di una ginnastica inconsulta. Quello che avviene sulla tela è qualcosa che ha a che fare con la durata inafferrabile del colore, con il nucleo della sua sensibilità specificamente visiva. Nelle opere recenti la pittura ha acquistato maggior peso percettivo, più robusta presenza di sintesi, mossa dall’energia unitaria del colore che il palmo della mano plasma in immagine plastica, attenuando la primitiva asprezza o sembianza. Il fatto che la mano dell’artista, appunto, entri in questo gioco costruttivo della materia significa che Bargoni sente l’esigenza di determinare il corpo del dipinto con equivalenze plastiche che richiamano l’idea di scultura. Ma non è tale, ancora. In una serie di dipinti dominati dal rosa, alla tenerezza del colore fa fronte un accamparsi di gesti pittorici. ampi e potenti, dilatati ed energici, una dolce aggressione di pennellate che vibrano attraverso minimi passaggi di luce. Anche quando il colore si fa aspro e incalzante il problema è quello di comunicare il farsi fisico del dipinto. La sua materialità, che sogna lo sprofondare e il risorgere. L’azzeramento e l’eccesso, la forma e l’informe. Dialettica necessaria alla visibilità complessa del colore medesimo. In queste opere domina un accento verticale che spezza l’andamento trasversale dei quadri del passato recente, senza contraddirne l’esito e la radice emotiva. Il ritmo verticale, frontale e scosceso, indica un portamento, un impatto in cui il colore-materia costruisce un blocco unitario alla dissipazione dei gesti pittorici. Il luogo è sempre invisibile ma la pittura si dà un corpo, un rilievo, una densità che prima erano disciolte nell’incanto di uno spazio in fuga, fuggevole, minacciato dalla memoria impressionistica della sensazione visiva. Questa memoria sopravvive, a dire il vero, in una serie fascinosa di opere dominate dal blu, a sua volta sorpreso da molteplici percezioni del blu, colore nel colore, spento e acceso da minime variazioni di luci, luminosità, lucentezze. Quadri, questi, che preludono i modi diversi dell’ultimo fare dell’artista, un ponte gettato tra il passato recente, spazio sublime di tocchi in vibrazione, e il presente sforzo di sintesi formale. Qui conviene insistere. Bargoni sta forse pensando anche alla possibilità di sculture, dipinte nella materialità di una superficie tridimensionale, strutture che vanno affrontate come insiemi di superfici, dipinte e ridipinte nella plasticità delle loro possibilità ambientali. Questo e ancora pittura per Bargoni. Pittura che tenta uno sconfinamento spaziale, non per resa alle dimensioni del piano pittorico ma per urgenza di toccare nuove dimensioni della vista, tra visibilità e tatto, verso il corpo totale del colore Il riferimento alla parete d’appoggio si è dilatato in queste opere che rimbalzano sul bianco del muro come forme in azione plastica, compresse e immobili su se stesse. Nell’immobilità il colore vive, sommuove la superficie, accoglie l’organico e l’inorganico, organizza l’eredità dell’informale in una nuova proposizione pittorica dei suoi passi estremi: il gesto e la materia. Si tratta dunque di assumere lo sguardo su un artista come Bargoni mirando a cogliere la persistenza del problema-luce nella dialettica tra spazialità effusiva del colore e coatta solidità della struttura. Questione, infine, che appartiene alla pittura nel suo costante germinare storico, nell’alternanza della visione lucida-opaca, analitica-emotiva, termini che per Bargoni sono sempre problemi di fondo, non di superficie.

Stefano Crespi

Dal catalogo mostra personale “Poema del colore” / Galleria Centofiorini / Civitanova Marche, 1999

Risulta inevitabile ribadire l’esperienza che, nello scrivere per la prima volta di un pittore, si mette in moto una condizione inedita: l’incontro con l’artista, individuare un tratto della personalità umana, ricercare qualche segnale di cultura, di poetica, recarsi nello studio (luogo o non luogo della pittura). Entrare insomma in una cifra di viaggio, di evento in atto che è quella sorta di circolarità tra un pittore, la sua opera e un lettore potenziale. Così è stato anche con Giancarlo Bargoni. All’inizio dell’estate, mi sono recato a Castell’Arquato nel suo studio. Era appena scomparso Attilio Bertolucci. Mi sembrava di ritrovare nel paesaggio di fondo la figura della sua poesia: quel rintocco spirituale (con le sue parole) che è la coscienza sorgiva di un’immagine di natura. Anche per questo, appena entrato nell’ampio studio di Bargoni, maggiormente mi è sembrato di avvertire il movimento, l’attrito, lo spazio, quell’atto vitale che è la passione dell’artista e la ragione della pittura. Anzi il senso della sua pittura, in questo primo incontro, mi è sembrato quasi coincidere con la durata di quel giorno: tra il primo quadro visto, all’entrata, Colori sospesi, e l’ultimo, Viaggio del blu. La prima impressione è stata proprio la percezione dello spazio e della temporalità, di presenza e divenire della pittura, tra il visibile (materia, contingenza, caos, trama) e l’invisibile (ritmo, esplorazione interiore, idea musicale). L’opera di un pittore, si sa, non è paradigmatica, non è uno svolgimento di probabilità linguistiche; apre cifre espressive, suggerisce anzi improbabilità poetiche. Nell’osservare i quadri, nella loro successione, in un accostamento provvisorio alle pareti, o in mezzo allo studio, si avvertiva quella concezione di insieme, relazionale, sintattica, libera dalla sigla del quadro individuale. L’informale italiano, per connotato storico, o di tradizione, è stato molto legato a un sentimento del luogo (se non dei luoghi). È il motivo che resiste sia pure in una declinazione lucida e ultimativa. I francesi hanno un’espressione di vero luogo, dove il qui del mondo si coniuga con l’altrove dei simboli, della cultura, del movimento della coscienza. Bargoni rimane eccentrico, nella sua fondamentale formazione, alle geografie dell’informale italiano. Ha un’amicizia con Piero Ruggeri che ha a suo modo una grandezza eccentrica nell’aver amato lo scenario vasto degli americani, nell’essersi identificato, negli anni di esordio con il ritmo espressivo del jazz. Non si tratta di una prospettiva di valutazione. Ma si sente in questo pittore una dislocazione. Lo conferma la sua stessa biografia di consapevolezza europea, a cominciare dai soggiorni, dai collegamenti, dalla sua presenza espositiva a Parigi. La nascita poi e gli anni trascorsi in Liguria possono essere ulteriore conferma. Pensiamo all’esempio più illustre di Eugenio Montale nella sua pronuncia poetica scabra, essenziale, disponibile più che a un’immagine (di natura) a una risoluzione di cose oscure in musica. Nell’accostamento a un’opera pittorica, rimane il rischio di costruzioni, di schemi mentali, di rimandi un pò astratti. Sono illuminate le poetiche dei pittori nella loro qualità assolutamente individuale, con quell’accento a volte di confessione diretta, fino all’affermazione epigrafica. Ora, nella conversazione con Giancarlo Bargoni, insieme a riferimenti di natura complessiva, è sembrato perfino un paradosso il richiamo, nelle sue letture giovanili, a Teilhard de Chardin. Un nome proprio insospettato. Eppure è qui che si può comprendere l’anima interna cha presiede a una propria testimonianza espressiva. Che cosa può rappresentare un’opera come quella di Teilhard de Chardin nella trasposizione di un’esperienza artistica? Il pensiero di fondo di Teilhard de Chardin esprime una concezione di plenarità terrestre, umana e sacrale al di là e al di fuori del dualismo che ha segnato la cultura occidentale: Materia e Spirito, Corpo e Anima, Natura e Trascendenza, Terra e Cielo. Privilegio e dovere dell’uomo sono quelli di compiersi sia pure in una passione dell’Assoluto e in una coscienza di vie cosmique. Scorrendo la bibliografia si può notare come non sia mancato qualche testo critico che abbia sottolineato questo rimando. Nel 1961 e nel 1962 Eduardo Cirlot scriverà la presentazione in due mostre personali e dedicherà in Spagna un lungo intervento a Bargoni: dà valore alla terra per riflesso del cielo ed in quello mostra il segno indelebile dell’epoca che può essere abbia in Teilhard de Chardin il suo pensatore più profondo o caratterizzato. Non si può parlare di spirito se non si parla di materia. Si può comprendere come un’esperienza pittorica nasca in una qualità emotiva, in una reazione irriflessa, ma anche in una poetica, in una lettura critica. In un arco poematico per affermazione e sia pure per via negationis. È un punto questo, del poema, che ricorre in una riflessione avvertita dell’oggi. Non è per giust’apporre citazioni. Ma alcune indicazioni sono un opportuno riferimento nelle cifre riassuntive degli stessi titoli: La fine del poema (Giorgio Agamben), Silenzio del poema (Piero Bigongiari). Il poema finisce, cade nella sua rovina. C’è la sensazione di una realtà dove le parole sono state consumate, la pittura è stata dipinta, dove l’arte e la scrittura sono relegate in una storica frattura tra la vita e gli oggetti. Tra i connotati dell’informale da una parte e la posizione concettuale dall’altra, risultava certamente difficile ritrovare un percorso in una sua motivazione esistenziale, espressiva, artistica. Il segno poematico rappresenta un’intuizione, una direzione, anche la dialettica di un’assenza; è un atto linguistico, l’energia del divenire, la percezione rigenerativa. La scelta complessiva, nel senso della potenzialità (non della stabilità) sarà costituita dal colore: orizzonte, tempo dell’indicibile, perpetuum mobile. Il colore può esasperare il significante anche a costo di trasgredire i significati. Non sopporta una teoria rigorosamente fenomenologica e categoriale. Anche in poesia un azzurro per esempio può essere di volta in volta spleen, oppure simbolo, concetto, diafana nostalgia, pura nota fenomenica, oppure atto rigenerativo. Tra i contributi critici per Giancarlo Bargoni, suscita una qualche sorpresa uno scritto di Eugenio Battisti, grande studioso ( L’Antirinascimento ), ma anche figura di inquieta sensibilità (un suo libro postumo ne rivela il gorgo oscuro della vita e dell’emozione, Il ricordo di un canto che non sento ). In quel testo del 1963 Eugenio Battisti intuisce la strada del pittore, là dove la tensione è più forte, il clima è più intenso ed evocativo, e il colore finirà per essere la polarità prevalente: Forse, alla fine dei conti, Bargoni è ancora un romantico. Il fondo di natura romantica finisce per incrinare il naturalismo, la visione geometrica, una concezione ordinata secondo regole di armonia, antitesi, corrispondenza. Il colore predispone perfino a quell’errore mentale e grammaticale per entrare in una epifania più segreta o misteriosa dell’essere. Le consapevolezze psicologiche e linguistiche dell’oggi hanno aperto prospettive interpretative sul colore in arte (ma anche in letteratura) liberato da una evidenza sensoriale: l’essenza del colore viene a corrispondere alla dinamica del linguaggio, a una legislazione interna, a codici semantici. Anche nelle ultime opere, che rappresentano il percorso essenziale della mostra presente, si evidenzia quasi il giro circolare del colore (appunto il suo divenire poematico): i grigi, il rosso, il nero, il bianco, i gialli, il blu. L’ordine potrebbe essere invertito, rovesciato, interrotto, certamente ampliato. Non ho il riscontro fotografico dei singoli quadri. Mi è rimasta di più una memoria di insieme dei quadri, del tempo (sentimento) dei colori nello spazio dello studio. Di acuta raffinatezza sono i grigi (nei quadri come Colori sospesi, La rosa dei grigi, Alba, Risveglio, Lume, Mozia ). Tra i grigi più affascinanti dell’arte del Novecento si possono ricordare i quadri di Nicolas de Stael (Tetti di Parigi, I gabbiani), di Alberto Giacometti (nella pittura soprattutto dei ritratti femminili): perduti, estremi quelli di de Stael, tesi all’enigma indecifrabile dello sguardo quelli di Giacometti. C’è in questi grigi di oggi una frontiera perfino verso una cultura orientale. Sembrano essere sottratti a quella tematica dell’assenza ( io e universo, tempo e simbolo). C’è una temporalità più spoglia di centralità umanistica, dilatata in un sottile racconto interno di luci, di viaggi, di veli del tempo. Si potrebbe continuare con la spietatezza del rosso, una versione quasi espressionistica del nero, la malattia del bianco, una sorta di sottile perversità soprannaturale (l’espressione è acutamente di Roland Barthes ) dei gialli. Infine il blu. Di intensa suggestione si potrebbero richiamare quadri come Blu-blu-blu, Il blu sempre vivo, Blue suite, Passi blu. E Viaggio nel blu che potrebbe essere la cifra riassuntiva di un percorso artistico. È il ritmo irreversibile e irripetibile della pittura, nella ciclicità di spazio e tempo, del giorno e della notte, volontà e abbandono, memoria e oblio.

Gillo Dorfles

Dal catalogo mostra personale / Galleria Rinaldo Rotta / Milano, 1971

Dorfles evidenzia l’importanza basilare dell’assetto geometrico sul quale si inseriscono dialetticamente le volumetrie di alcuni rilievi di legno colorato. È un momento di ricerca anche su nuovi materiali e di un fare quasi artigianale da parte di Bargoni. “Un elementare ma inflessibile “esprit de géometrie” sembra guidare la più recente produzione di Bargoni che – attraverso addizioni e sottrazioni volumetriche – crea singolari e variati contrappunti con la superfice della tavola dipinta. Quest’ultima, infatti, costituisce quasi un basso continuo sul quale gli accordi siano creati da blocchetti, rettangoli, losanghe sovrapposti o viceversa da linee, solchi, incavi, sottratti all’uniforme piano neutro su cui si stende, eguale e omogeneo, il colore. Il colore, in queste esatte, meticolose costruzioni, viene così a costituire soltanto una delle dimensioni dell’opera. È un colore pieno, timbrico, campito quasi sempre, ora, a base di tempere acriliche che si dipana uniforme a coprire l’intera superfice e che viene interrotto soltanto dalle protrusioni e dagli incavi, dagli oggetti e dalle rientranze delle singole “figure” astratte che su tale fondo si stagliano. Ma il gioco dialettico tra fondo e figura sarebbe forse eccessivamente monotono se, a ravvivarlo, non venissero le – previste ma imprecisabili – ombre portate che l’incidenza della luce crea di volta in volta, giocando sulla volumetricità delle singole immagini. È, questo, l’unico azzardo di cui Bargoni si vale, nella precisa e programmata composizione degli oggetti da lui creati: ed è questo elemento di azzardo, di randomita, assieme alle minute imprecisioni dell’esecuzione artigianale, (Bargoni non ama valersi di aiuti tecnici o di esecuzioni meccaniche, ma costruisce da sé, con le sue mani, le asticelle di legno e le singole forme) a costituire uno degli aspetti più positivi dei suoi dipinti. Il contrasto, infatti, tra la scaltra e perfetta esecuzione e il sempre impreciso e sfumato assetto delle ombre, crea un contrappunto ulteriore che viene ad aggiungersi a quello prima descritto, tra i diversi livelli della tavola. In questo modo, l’artista genovese, – dopo aver lasciato dietro di sé le sue ormai remote esperienze informali e materiche, e dopo aver distillato lungamente quelle più direttamente legate alla tradizione d’un arte concreta – ha raggiunto oggi, un linguaggio, dove, alla precisione delle sperimentazioni geometriche si allea anche l’imprecisione e l’ambiguità dell’”Asimmetrico”: questo elemento costante d’ogni operazione artistica dei nostri tempi: capace di vitalizzare e di rendere imprevedibili anche le più rigide e rigorose produzioni dell’arte programmata”

Michel Faucher

“Giancarlo Bargoni. Une authenticité, une justesse, une présence rares.” in Cimaise n°218-219 / Parigi,1992

Diffusa e sensibile lettura delle grandi tele ad olio esposte per la prima volta a Tolosa. “Il n’est pas indifférent que Giancarlo Bargoni expose chez Protée. La parenté avec d’autres peintres de la galerie n’est pas évidente. Et pourtant, il ne pouvait être que là. Passée cette affirmation, il paraît naturel de la justifier. Des œuvres de Bram Bogart, d’Eugène Leroy ont été présentées récemment, alors que l’on retrouve régulièrement sur les cimaises Lindstrom et Fichet. Chacun est dans sa propre logique. Néanmoins ces artistes, comme Bargoni, au-delà de ce qu’ils montrent, scrutent la matière dans ses replis les plus cachés, tentent dans l’utilisation massive de la peinture des incursions au cœur de ses mystères. De même que la couleur n’intervient pas uniquement comme moyen, mais comme élément constitutif du tableau. Dans ce voisinage étrange d’artistes engagés dans des réflexions, des développements plastiques apparemment éloignés, des connexions se font. Informel exubérant et généreux Avec une démesure, un excès de type baroque ou romantique, Bargoni nous propose des œuvres fortes faites de matière et de couleur. Son parcours semble-t-il l’a conduit de l’informel à une organisation plus stricte – voire géométrique – de l’espace pour un retour sana nuance à un informel exubérant et généreux, une sorte de liberté retrouvée. Ce qui singularise ses travaux récents c’est sans conteste la confrontation d’empâtements affirmés et de tonalités vives qui permettent aux couleurs d’exprimer leur intériorité, de livrer à travers les accidents de la matière leurs plus subtils éclats. La lumière ici triomphe par le blanc sans doute, mais aussi les rouge, les jaune, les vert. En aillant avec une rare fougue ce rapport complexe de la matière et de la couleur, Bargoni, nous ramène aux éléments fondamentaux de la vie. Ce qui nous montre c’est la fusion, aussi bien que la tempête, le magma dans ses velléités créatrices, autant que la tourmente intérieure. Esprit et matière se retrouvent. Les énergies en cause s’éloignent du quotidien, de l’ordinaire pour ne retenir que l’essentiel, feu, eau, air, terre, la spiritualité dans son acception la plus élevée. Bargoni rejette la policé, les affres de la culture, s’appuie sur l’instinctif et revient aux sources élémentaires de la communication. La dérive abstraite est entière, affranchie de toute contrainte. Nous sommes en présence d’une œuvre de chair. Invitation au partage Une dimension s’impose. Les tableaux sont chauds, tactiles, sensuels. De manière confuse, ils attirent. L’attraction est puissante. Il y a là comme une invitation au partage, au voyage. L’artiste nous mêle à son aventure. La peinture comme l’expression de la couleur avec l’appui de la matière pourrait résumer le propos. L’unique obsession est l’extraction du plus profond de la couleur de résonances mystérieuses, de sonorités étranges, d’impressions que seule la couleur peut suggérer. La pâte utilisée dans son épaisseur, marquée des traces de l’instrument qui la répand ajoute à la sensation de pénétration au centre des bleus, oranges et autres jaunes…Elle souligne physiquement le désir de l’artiste. Il ronge, gratte, scrute la couleur, la mélange pour des nouvelles relations, descend au cœur de son intimité, cherche à révéler sa vérité. La lumière libéré apparaît comme une première réponse. Elle n’est pas la seule. Lumière qui butte sur les creux, les bosses, les stries de la peinture et s’engouffre dans les accidents de la matière pour réveiller d’autres couleurs. Ce jeu compliqué, ce rapport bizarre qui s’installent tiennent autant de l’alchimie que du kaléidoscope. Bargoni ne nous montre rien d’autre que la vie par le biais de la couleur à travers la matière. Ce propos où le concept paraît épuré à l’extrême renvoie aux signes dérisoires que l’on trouve sur les parois des grottes et des cavernes. Traces éternelles d’un destin anodin aux angoisses millénaires. En touillant la couleur, en développant ses possibilités en voulant accroître toujours davantage ses capacités, l’artiste ouvre la voie des abysses, celle des entrailles du noyau de la graine de la terre. Quelles que soient les couleurs retenues, étalées, le sentiment est qu’il s’agit de coulée de lave, de forces venues d’ailleurs, de loin. Ce sont des énergies en action, en marche, en devenir, un instant retenues par l’espace du tableau que Bargoni nous livre, lui-même essayant de les maîtriser. Mais un tableau, un acte créatif peut aussi être prétexte à une harmonie plastique. L’œuvre de Bargoni est d’une très grande plasticité. La violence en cause, le déferlement des couleurs, la présence appuyée de la matière ne sont en effet pas contradictoires avec cette exigence. La beauté ici s’affirme, de même qu’une forme de plaisir voluptueux, une sorte d’irradiation apaisante. Est-ce à dire que la fréquentation des tensions telluriques ramène au calme, au bien-être ? Chacun apportera sa réponse. La réflexion abstraite n’est qu’à l’aube de ses avancées. Les artistes ayant retenu cette expression ne cessent, à petites touches, d’en repousser les limites. Bargoni apporte une contribution originale à la quête constante de l’informel vers plus de liberté, plus d’efficacité si l’on admet que cette pratique conduit si peu que ce soit à la connaissance. Au cœur de la couleur, au centre de la matière Ce qui surprend parfois chez Bargoni c’est l’expressionnisme du geste. Il permet une rugosité, une agressivité qui correspond à la volonté du peintre mais qui gomme d’une certaine façon ses racines italiennes. La brutalité dans les traitements des aplats, la charge contenue des couleurs ramènent plus spontanément aux influences nordiques. Il n’empêche, nous sommes face à des tableaux d’une authenticité, d’une justesse, d’une présence rares. Ils nous cernent à force de nous happer, nous entraînent dans un tourbillon sana fin. Au cœur de la couleur, au centre de la matière, Bargoni pose les vraies questions. Les seules qui le hantent profondément et nous agitent. En témoignant de ses angoisses de ses interrogations, il marque la trace nue de son être psychique. Ses tableaux deviennent les frottis de son âme autant que l’image approximative d’un coin d’incandescence universel. Le miracle de l’œuvre tient au rapport fragile entretenu entre ces deux dimensions qui, l’instant d’une toile, se confondent pour un destin partagé. Une histoire commune. Dire cela semble évident. Souvent, les évidences s’oublient. Giancarlo Bargoni avec somptuosité le rappelle”

 

Gérard Gamand

Azart / novembre-décembre 2005

Bargoni Splendeur de l’informel. Lui qui, il y a trente ans, était le chantre du blanc, a progressivement fait venir la puissance de la couleur dans son travail. Sa période de rouge délivre une force invraisemblable. Nous sommes subjugués par la puissance des pièces qu’il nous présente. Nous sommes au coeur de la belle peinture, celle qui a justifié la création du magazine Azart. Celle qui offre du bonheur, On sent comme un parfum d’éternité dans ce travail. On doit pouvoir vivre une vie entière en compagnie d’un tableau de Bargoni et toujours y trouver son plaisir. À claque âge de la vie.

Lydia Harambourg

La Gazette de l’Hôtel Drouot / Paris, 15 mars 2002

Bargoni, peintre de l’effusion, de la ferveur picturale, affronte la surface de la toile avec un lyrisme puisé dans la campagne émilienne que l’environne. Un élan vital et passionnel s’ajuste simultanément à sa vision poétique et à son choix d’un art informel. Il ne démontre rien, ne copie aucunement ce qui l’entoure mais tente une confrontation avec les phénomènes sensitifs offerts par la nature. Les chaudes senteurs de l’été, la saturation des couleurs, les vapeurs incandescentes matérialisées, l’espace dilaté et l’ivresse des journées torrides qui s’épanche transforment le réel en un éblouissement optique et sensuel. Le rouge et le jaune sont portés au maximum de leur intensité sonore. La couleur devient autonome, rompt avec son modèle qu’elle transfigure. Avec une franche liberté, elle s’approprie l’espace qu’elle soumet à sa réalité matérielle : celle des pigments utilisés jusque dans leurs extrêmes limites. Le noir, le blanc et les terres sombres s’affrontent en effet en des contrastes repoussant les limites des couleurs solaires jusqu’au bord du gouffre. Des signes viennent parachever une partition toute dévolue aux louanges des éléments premiers avant qu’ils ne soient domptés par la raison. Hymne panthéiste, la peinture de Bargoni, dont c’est la quatrième exposition en ces lieux, parvient à sertir la beauté dans le territoire de la toile.

Philippe Latourelle

Dal catalogo mostra personale / Musée Estrine – Espace Van Gogh / Saint Rémy de Provence, 2010

Extrêmement concrets, ces tableaux ne répondent pas au réalisme mais à leur propre réalité , on pourrait dire qu’ils sont plus réels que réels. Les vraies dimensions de cette vision, l’artiste les trouve en lui-même dans une très subtile relation entre son affectivité et son environnement, et il devient alors le philosophe de sa propre action. Et lorsque  Giancarlo Bargoni utilise le geste dans les moments les plus intenses de sa création, leur violence, comme la puissance des couleurs utilisées, sa spontanéité, en font la plus profonde expression de son moi, de sa «réalité intérieure».  Chez cet artiste le tableau devient une représentation théâtrale d’un état émotionnel physique et psychique. Dans un corps à corps avec la toile, il utilise ses mains et sa peinture apparaît comme une construction en clair-obscur dont la lumière serait le sujet principal.  Dans l’instantanéité de son geste, traversé par les forces de l’inconscient qui amplifient les tensions internes au détriment de la clarté de la représentation, il synthétise ce que la peinture traditionnelle divisait: le sujet, l’émotion et la mise en scène….

Corrado Maltese (1)

Dal catalogo mostra personale / Galleria Ravagnan / Venezia 1974

Ampio esame sulla pittura aniconica in Italia e analisi del tipo particolare di progettualità contraddittoria in Bargoni. Rivendica al pittore un tentativo di sintesi e/o di conciliazione tra emozione e ragione. “La storia della pittura aniconica in Italia passa per molte tappe, ma almeno alcune si possono ritenere essenziali. La prima si basò nell’equazione tra idea e forma: un oggetto visibile non è un oggetto ma prima di tutto, per il pittore, una idea, una struttura nello spazio, una relazione fenomenica. Si tratta di visualizzare l’idea, di tradurla nelle due dimensioni e a questo scopo la forma figurativa appropriata e lo schema cioè l’enunciato statico di una relazione semplice tra colori, contorni, volumi. Il movimento di Forma Uno fu intorno al 1947 il primo risultato consapevole di un simile orientamento. L’informel fu la tappa numero due. Identificando pittura ed emozione, l’idea veniva esclusa sia come progetto che come struttura. Se la ricerca della equazione forma-idea non era ancora una ricerca segnica ma una ricerca di normativa del rapporto simbolico tra forma ed emozione, la proposta informale negava anche la possibilità stessa di un valore segnico, postulando l’equazione automatica e immediata di significato e azione. Un nuovo aniconismo ne fu il risultato non obbligatorio. In ogni caso però era esclusa progettazione e previsione e l’allusione iconica poteva emergere come causale incidente lungo un iter che ne eludeva il problema. Dire che l’indicazione informale sia stata seguita senza riserva dagli artisti italiani allora in formazione costituirebbe un grosso errore di prospettiva storica. Quell’ipotesi erronea, qualora fosse formulata, non permetterebbe di comprendere né il contraccolpo anti informale che seguì ad opera dei nuovissimi cultori delle proposte optical, cinetiche e neocostruttiviste, né la tenace perseveranza di pittori come Scanavino nell’offrire accanto alle notazioni di una griglia di riferimento razionale, lucidamente pensata e progettata. Se il Gruppo Uno ebbe forza polarizzante per molti che formalmente ne rimasero non coinvolti ciò accadde tuttavia perché faceva appello alla progettualità della forma e, insieme, alla sua possibilità di occasione sperimentale. Mentre sul versante degli iconici la cosiddetta «Nuova Figurazione» snaturava un vecchio impulso verista macerandolo fino all’egotismo e all’emagerie freudiana il dilemma di fondo rimaneva tra l’aniconismo senza progetto e l’aniconismo come progetto di una ricerca segnica condotta fino ai limiti del rigore. La vicenda pittorica di Bargoni si innesta esattamente su quest’ultimo dilemma seguendone con accorta prudenza le oscillazioni. A una radice scopertamente informale egli sostituì pian piano già dal 1961 un sapiente sincretismo tra impasti materici liricamente intuiti e i segni ostentati di una geometria compositiva. Era una delle soluzioni reperibili in Liguria anche dopo di allora sulle tele di ben noti antesignani (e pensiamo ancora a Scanavino), tanto da permettere di postulare una «Scuola di Genova» per la pittura di quegli anni. Ma Bargoni ha puntato più fortemente di ogni altro sull’impianto geometrico, su una compattezza quadratica dell’immagine tanto da spiegare il suo successivo passo decisamente neocostruttivista. Se l’informale era negazione del progettare, Bargoni ne riaffermava il valore proponendo intorno al 1966/67 disegni esecutivi come opera compiuta, ostentando anzi la prassi del progettare nella sua dinamica fattuale e grafica. Nei pannelli più impegnati componeva i piani di colore sotto forma di lastre in rilievo sagomate secondo figure geometriche semplici. La nota di colore tendeva così ad assumere anche la valenza di un corpo reale e la sua modulazione non era opera del pennello ma dell’alone d’ombra che si proiettava sulle superfici arretrate. Se di neocostruttivismo pittorico, di una ricerca razionalizzata di strutture primarie del colore, dell’ombra e della luce. Se così è, si spiega l’improvviso ma non inopinato ritorno di Bargoni verso l’opposto polo della sensibilità intuitiva, dell’impalpabile lirismo della materia. Sull’immutabile impianto quadratico, ostentato come componente esibiscono ora con sicura evidenza: sulla tela nuda i colpi di spatola della mestica; sulla mestica il tracciato della griglia compositiva; sulla griglia le velature di un colore vibrante, timbrico, aniconico anch’esso. Se dopo optical e cinetismo, strutture primarie e minimali, l’ultimo grido è stato operativo e concettuale, è chiara l’ambizione di una sintesi che tutto riassuma saldamente. Se nel versante iconico la sintesi iperrealistica accentra analisi semiotica e valori simbolici, processo operativo e distaccato concettuale, Bargoni sul versante aniconico ripropone con rigoroso equilibrio un’analoga sintesi tra esplorazione segnica e processo esecutivo; in definitiva il classico e semplice sincretismo tra emozione e ragione.

Corrado Maltese (2)

Dal catalogo mostra personale / Circolo Artistico delle Prigioni Vecchie / Venezia, 1975

Maltese discute di “costruttivismo pittorico” non tralasciando di evidenziare l’importanza dialetticamente data alla luce-colore e alla materia-colore. Pochi mesi or sono scrivevo della recente pittura di Bargoni “se di neocostruttivismo si deve parlare (ma non è affatto dimostrato) si trattava di un costruttivismo pittorico, di una ricerca razionalizzata di strutture primarie del colore, dell’ombra e della luce” e aggiungevo: “Sull’immutabile impianto quadratico ostentato come componente essenziale di una nuova sintesi, operazione e concetto, liricità e calcolo si esibiscono ora con sicura evidenza. Sulla tela nuda i colpi di spatola della mestica sulla mestica il tracciato della griglia compositiva, sulla griglia le velature di un colore vibrante, timbrico, aniconico anch’esso”. A questa valutazione d’insieme non sembra a breve distanza di poter apportare modifiche sostanziali. Tuttavia in seconda approssimazione è possibile dilatare l’angolazione prospettica di questa valutazione indicandone due sollecitazioni essenziali: la trasmutazione materica e l’esplorazione cromatica subliminale. La prima questione è messa in chiaro in questa mostra dalla presenza di almeno due paradossali “campioni”: il muso dell’agnello che lambisce la mano del Buon Pastore in uno dei mosaici del Mausoleo di Galla Placidia; la costellazione di ruote celesti che è al centro del cielo della crociera. In questi due casi il modello è tanto significativo quanto l’analisi strutturale che Bargoni vi ha esercitato. Se le tessere musive della grande età ravennate incarnano l’ideologia della sacralità della luce e, in conseguenza, del colore che si fa rnateria i groppi di carta-riso schiacciati su un tondo di carta colorata esprimono l’ideologia della materia che si fa luce e colore. Certo, tocchi sapienti di caldi e di freddi “rialzano” o “abbassano” i toni delimitando le forme; certo, il tratto della matita elimina attraverso un processo ostentato e palpabile l’indeterminatezza della prima intuizione della forma. Eppure singolarmente la struttura (o vogliamo dire l’Essenza?) del codice figurativo ravennate è specularmente ma fedelmente restituita. La seconda questione è messa in chiaro da quegli stessi “campioni” che ho già citato e, in via definitiva da composizioni più recenti quali per esempio “P. 1974″o”P. 1975″. Difficilmente si afferrerebbe il tratto fondamentale che le collega alle trascrizioni ravennati quando si accantonasse come scontato il centraggio compositivo e diagonale inquadrato e l’ideologia materica della luce e si dimenticasse che non c’è luce senza un’attribuzione di colore. Si ricorra al &equot;solido&equot; di Munsell o alla curva della Commissione Internazionale per l’illuminazione che definisce i limiti invalicabili delle radiazioni visibili: non troveremo mai i colori di Bargoni sui contorni o nelle zone periferiche di entrambe le figure. In contraddizione aperta con la tradizione neoplastica, suprematista e costruttivista che basava sugli estremi colori puri l’appello a un universale esperanto plastico la tastiera cromatica di Bargoni si modula sui colori impuri, i più impuri possibili proprio perché i più materici possibili. Per le stesse ragioni per cui le tessere splendenti dei mosaici ravennati tendevano ai colori puri e dunque alla spiritualità neoplatonica dell’idea, simmetricamente e inversamente la &equot;maliziosa e faziosa&equot; trascrizione strutturale bargoniana tende, con pari chiarezza alla massima &equot;impurità” di quei toni e di quelle forme e dunque all’idealizzazione e alla razionalizzazione della materia. Pervenuto a questo nocciolo modulare non c’è da stupirsi se Bargoni realizza nelle velature rigidamente geometrizzate e al tempo stesso rigorosamente materiche degli ultimi dipinti la sintesi più sottile e inquietante di questa sua lunga esperienza di ribaltamento di almeno due tra i più accreditati e illustri codici figurativi della storia dell’arte”

 

Elena Pontiggia

Dal catalogo della mostra personale / Galleria d’Arte Steccata / “La luce delle cose” / Parma, 1998 

La prima cosa che ci raggiunge, e ci colpisce, di fronte ai quadri di Giancarlo Bargoni, è la violenza che sprigionano. Diciamo «violenza», e subito ci accorgiamo che la parola non è precisa. Violenza fa pensare ad aggressività, e qui invece siamo di fronte a una passionalità coinvolgente e coinvolta, ad una condizione di apprensività accorata, ad uno stato di serena disperazione nei confronti di ciò che esiste, nei confronti della bellezza che pervade ciò che esiste. Forse bisognerebbe usare il termine «veemenza», un pò nel senso in cui l’aveva usato un grande critico francese, Michel Tapie. Una sua mostra si intitolava «Veemenze a confronto», e si trattava di un titolo suggestivo, proprio per la relazione che introduceva fra i dati immediati dell’impulso e quelli mediati della valutazione, del confronto. Ecco, la pittura di Bargoni ci propone, anzi ci impone un rapporto diretto, impetuoso, con le cose. Osservare un suo quadro ci permette di sentire con forza la presenza di realtà (naturali, mentali), che improvvisamente ci appaiono non nelle loro vesti consuete, ma nel nucleo di energia scatenante che le origina e le compone. E questa energia è, prima di tutto, luce. Noi abbiamo, di solito, una percezione opaca della realtà. Tanto per fare un esempio, pensiamo che la materia che abbiamo di fronte, qualunque materia, sia qualcosa di immobile. Invece la scienza ci ha spiegato che tutto è flusso di elettroni, tutto (anche questo foglio che tu, lettore, hai in mano, e che sembra cosi statico) e moto febbrile, anche se invisibile. Ma la scienza è sempre in ritardo sulla poesia. La poesia non aveva avuto bisogno della fisica, per sapere che non esiste vita (anche la vita delle cose) che non sia movimento ed emozione. Anche guardando le opere di Bargoni si è spinti a rivalutare, a riconsiderare i nostri metri di giudizio. A pensare che non c’è forma di vita che non sia una forma di passione, nel duplice senso del termine. La violenza di cui parlavamo, dunque, non è l’aggressività, né tantomeno la brutalità, dell’agire. È la violenza dell’arte. Si spiega così come nella pittura di Bargoni il vigore concitato del colore e del segno, l’arroventato consistere delle linee e delle pennellate, che si avventano sulla tela e lottano tra loro fino a far esplodere i nessi sintattici, mantengano sempre una profonda armonia. I segni non percorrono mai i territori dell’informe, ma perseguono e custodiscono un’innata vocazione architettonica. (Dove per architettura non si intende una dimensione ingegneresca, ma una qualità visionaria, propulsiva, del costruire). Tutto, tutto ciò che è, è luce, diceva Duns Scoto. Tutto si muove, tutto corre, diceva Eraclito e, con lui, Boccioni. La pittura di Bargoni ci invita, anzi ci obbliga a prendere visione (come si dice nel linguaggio burocratico, con espressione, una volta tanto, interessante) della luce che sottende l’esistente, che è l’esistente. Ma il concetto di luce non va inteso in un’accezione mistica, contemplativa. La luce (è sempre la pittura di Bargoni a ricordarcelo) è una realtà dinamica, ansiosa, allarmata. Procede per scoppi, per deflagrazioni, per crisi gnoseologiche. La luce rende possibile la visione, ma può anche renderla impossibile. Proprio per questo la pittura e lo spazio (breve) tra la rivelazione e la cecità, tra il vedere e il non vedere più. Le opere di Bargoni, allora, si presentano come una rivelazione. Rivelazione di un evento, di un sentimento, di un’idea. Ma rivelazione, soprattutto, della pittura. C’è un amore ostinato, in queste tele, nei confronti del linguaggio pittorico, di quello che solo la pittura è capace di rivelare. Il colore, il segno, la pennellata, lo spazio della tela, i confini di un perimetro quadrato o rettangolare: sembra che in ogni quadro Bargoni rifletta (la sua pittura ha una persistente dimensione concettuale, nonostante l’intensa vitalità che la percorre) da un lato sul soggetto del suo lavoro, dall’altro sul lavoro stesso, su quello che significa dipingere. C’è sempre, nelle sue opere, quel senso di sottile stupore (Sottili stupori è il titolo appunto di un suo quadro) che prende l’artista nel constatare che l’opera ne sa di più di lui. Per questo, dall’esperienza dell’informale, ma anche da quella della pittura analitica (le due fonti di cui si alimenta il suo lavoro, che però le supera entrambe) Bargoni ha colto la lezione più importante. Quella di un’arte che non si riduce a teoria, ma che continuamente traduce il pensiero in colore, il pensiero in luce.

 

Vittorio Sgarbi

Dal catalogo della Mostra personale “Grandi Formati” / Villa Medici del Vascello / San Giovanni in Croce (CR), 2016

La prima cosa che ci raggiunge, e ci colpisce, di fronte ai quadri di Giancarlo Bargoni, è la violenza che sprigionano. Bargoni, o del funambolismo esistenziale. C’è l’artista, c’è l’opera da lui creata, ci sono quelli che la guardano. Di questi ultimi, la critica è la parte più specializzata; il suo compito, prima di ogni altro, è rendere coscienti del fatto che l’opera, nel momento stesso in cui esce dalle mani dell’artista per offrirsi agli altri, diventa qualcosa di diverso da come è stata concepita. Volessimo dirla un po’ nei termini con cui Umberto Eco ha teorizzato in semiotica il concetto di “opera aperta”: piuttosto che essere interpretata nel modo unilaterale che potrebbe pretendere il suo creatore o anche il filologo, l’opera è più spesso soggetta a tante interpretazioni quante sono le differenze di formazione culturale e di sensibilità personale dei suoi interpreti. Le opere che fanno grandi i musei sono tali non perché sono “quello e basta”, ma perché capaci di suscitare un numero sterminato di interpretazioni, che possono essere anche assai lontane dalle intenzioni di chi le hacreate. E’ questo il bello dell’arte, riversare nelle opere ciò che siamo per poterci appropriare di esse,trasformando qualcosa di individuale all’origine in un fenomeno di coinvolgimento collettivo. Giancarlo Bargoni è artista che esalta al massimo livello la multipla interpretabilità dell’opera d’arte. Non solo per ciò che crea, costituzionalmente votato, per il solo fatto di essere – per lo meno da un certo momento in poi, quasi nel mezzo di una carriera ultracinquantennale che lo aveva visto praticare, a Genova, l’attività di gruppo e la sperimentazione nel versante della cosiddetta “Pittura pittura” – espressione appartenente di diritto alla categoria dell’Informale, a essere visto con una certa liquidità di disposizione, ognuno facendo i conti con sé stesso nel momento in cui si confronta con l’opera, ma anche per quanto ci dice sul suo modo di creare. Trovo particolarmente interessante, per esempio, che Bargoni, giunto ormai a una maturazione artistica indiscutibile, di opere in primo luogo, ma anche di pensiero, definisca distruttivo il procedimento fondamentale attraverso cui configura le sue opere, poi compensato, nel fieri creativo, dal momento contrario della ricostruzione. Per conto nostro, avremmo detto che, piuttosto che instaurare una dialettica oppositiva fra il destruens e il construens, la pittura di Bargoni l’avesse superata in virtù di un processo di progressiva accumulazione, portata avanti fino a quando gli insiemi di segno, materia e gesto che sono accomunabili sotto il denominatore del colore, entità prioritaria della grammatica bargoniana che assolve allo stesso modo funzioni sensoriali e strutturali, non fossero pervenuti al raggiungimento di un equilibrio compositivo, visuale e fisico, quasi biotico, direi, che preluda alla fase di stabilizzazione del risultato così ottenuto, come in una specie di stagionatura che dalla sedimentazione si proponga di ottenere il consolidamento della forma finalmente compiuta. Per questo, avrei associato Bargoni a un funambolo, figura cara a Jean Genet, “festa unica”, apparizione che ogni volta che sfida il pericolo mortale, afferma tutta la forza della vita, alla ricerca, forse, di un equilibrio assoluto. Ma è Bargoni in persona a dissuaderci dalla tentazione di presumere il funambolismo come una dote innata e assoluta, escludendo che l’esito di ogni sua opera, che pure ci parrebbe perfettamente realizzata, non più sottoponibile ad alcuna modifica, neanche la più impalpabile, pena il rischio di compromettere l’equilibrio raggiunto, sia da ritenere definitivo: nulla, ci dice, va considerato per sempre, il vero finito dell’opera è quando rimane priva di possibilità di ulteriori sviluppi, non avendo, in sostanza, più nulla da dire. Non c’è che da prenderne atto, accettandone le conseguenze: in pittura, che per Bargoni rimane attività di carattere eminentemente pratico, con la mano (il piede, avremmo detto per i funamboli) sempre a precedere, nell’automatismo creativo, la riflessione fatta a tavolino, l’equilibrio non è mai un concetto astratto, d’ordine metafisico, ma, semmai, una nozione di respiro più contingente, fenomenologico, esistendone tanti quanti sono i problemi artistici che ciascuna opera, nel momento in cui comincia a prendere forma, mira a risolvere. Non basta cercare, nel funambolismo dell’arte, bisogna trovare, e non qualcosa che si è già intuito, o, peggio, che si è già intenzionati a scorgere, ché il gioco, altrimenti, sarebbe baro e non avrebbe alcuna utilità, ma ciò che gli elementi in ballo, di volta in volta, nella loro infinita possibilità di combinazione, propongono all’artista quando già si trova con le mani totalmente in pasta. Credo che la massima soddisfazione creativa di Bargoni consista proprio nel trovare ciò che in partenza non si aspettava, al culmine di un’avventura espressiva di cui lo sbocco della sua concrezione formale, pure così appagante, costruita, a suggellare la dominanza di una tinta calda e sgocciolante sulle altre, oppure calibrando col bilancino il contrasto fra tono e tono, fra spessore e spessore materico, con l’empirismo fattivo ed esperto di un’architettura spontanea, è solo il residuo visibile di un’esperienza interiore di fortissimo coinvolgimento, come una sorta di rinascenza dalle ceneri, di rinnovamento spirituale che si verifica ogni qual volta si trova ad affrontare il cimento artistico. “Io sono”, afferma a chiare lettere ogni opera di Bargoni, e lo sono nel momento in cui ho creato, in un processo in cui la creazione, a sua volta, finisce per creare me. Io ho fatto, e sono stato fatto. Se ammirando questo funambolismo artistico che nel suo profondo è intensa testimonianza di vita, avessimo l’impressione di percepire, come in Genet, la rivelazione di qualcosa di prima non avvertito, offrendoci la possibilità di acquisire qualcosa che non faceva parte del nostro bagaglio di certezze, si sappia che è il riflesso, perfino pallido, nella sua portata inevitabilmente limitata rispetto all’esperienza esistenziale da cui deriva, di quanto l’opera aveva già rivelato all’artista. Ecco perché Bargoni non accetta l’idea che le sue opere siano mai finite, per renderle e renderci sempre disponibili al libero, rigenerante flusso dell’emozione. Perché lui sia un pò in noi, e noi in lui.

Marco Vallora

Giancarlo Bargoni a Marktoberdorf / Lo specchio / La Stampa, 2007

Non stupisce che un pittore raffinato e appartato come Giancarlo Bargoni, genovese nato nel ’36, sia forse più apprezzato all’estero che da noi. Infuocato, arroventato quasi di neri e di rossi, Bargoni nella sua pittura ben metallizzata travolge brani-ricordi di De Kooning e s’imparenta molto al piemontese Ruggeri, con cui ha anche esposto (una delle rare sue gemellanze). Lo presenta Claudio Cerritelli in un testo convincente: “Da sempre si misura con la fisicità del colore che si espande e fluisce nel gesto vitale del dipingere. Ogni scelta formale è legata al continuo trasformarsi della materia dentro lo spazio-corpo della pittura, attraverso slanci improvvisi e tumulti interiori, che si generano in modo imprecisabile nelle strutture fluide della memoria.”E anche noi rimaniamo travolti da queste coinvolgenti “voragini di colore”.

Marisa Vescovo

Dal catalogo mostra personale / Galleria Bologna Due / Bologna, 1975

Vescovo individua in colore-geometria-luce-spazio i caratteri definitivi della pittura di Bargoni e nella durata necessaria della percezione il suo obiettivo principale nei confronti dell’osservatore. “In un secolo travagliato e di radicali mutamenti, l’identità dell’artista e il suo “fare” arte mutano e si ricercano con inquieta perplessità. Gli antichi moventi della “pittura” hanno subito un processo e sono stati più o meno distorti ed appiattiti dal tecnologismo più esasperato e strumentalizzato, che ha saputo sradicare con leggerezza gruppi etnici e culture ancora autonome, ma. Ma proprio per questo l’arte diventa sempre più l’ossigeno in grado di ricostituire l’io tramite una esperienza visiva che ha prospettive profonde, tutte da “re-inventare”. Un’avventura terribile e solitaria che si paga di persona. Bargoni consapevole di questi fluidi problemi porta avanti una sua rigorosa operazione, che pur risolvendosi nella ripetizione intransigente dei suoi stessi termini, mette in moto una serie di articolazioni di pensiero che contestano e analizzano dialetticamente i propri stilemi poetici; colore e geometria, e nello stesso tempo impediscono che gli spazi per le “decisioni momentanee” vengano chiusi, evitando così la cristallizzazione dell’espressività all’interno dell’opera. Queste proposizioni denotano una profonda aderenza a quell’area di ricerca che pretende relazioni strette con tutto un filone della cultura europea del ‘900 di una istruita razionalità, che pur tuttavia affonda le sue radici in un idealismo denso di umori romantici che non vanno disgiunti da una toscanità che trova nella luce e nella geometria un elemento fisico da proiettare nel regno dell’astrazione, letta nella direzione dei suoi aspetti storici e individuali più densi di significati. Ma i caratteri definitivi della pittura di Bargoni e cioè: colore-geometria-luce-spazio, vogliono, senza velleità metafisiche, rappresentare soprattutto sé stessi e un “modus operandi” che innesca un processo di attivazione “diversa” in chi guarda. Quindi anche se dal quadro ci fronteggia con vigore la “geometria”, come nell’astrazione storica, questa non è ora assolutamente in funzione di una struttura programmata, ma visualizza invece la perfetta coincidenza tra il “progetto” del quadro e il suo risultato effettivo, tra ciò che vediamo e ciò che leggiamo dietro. Questa geometria tenuta a livello archetipo, o pensiero che si sviluppa per forme prime, non tende a servirsi del colore, ma al contrario è il colore che l’assume come pretesto da confrontare e annullare per organizzare le superfici secondo un'”altra” possibilità di suggestione ottica, che, superando il piano fisico dei dati elementari, giunge ad una “totale” ridefinizione mentale e poetica della tela. Verso la fine degli anni 60, Bargoni sente che è giunto il momento – pur non rinnegando affatto i postulati liberatori e le posizioni esistenziali dell’Informale – di portare l’indagine del reale a livello mentale, liberando la pittura da molti falsi problemi come quello della rappresentazione e del racconto, che, come dice Bresson, va lasciato al cinema, mentre la pittura deve diventare il campo per una riflessione permanente sulle forme pure. Con un’operazione analoga a quella di Manet – non dimentico di una tradizione “conosciuta” come quella dei mosaici ravennati, del pensiero razionale rinascimentale, e magari delle trasposizioni ipnotiche di Rothko – Bargoni ribalta con sicurezza il discorso sulle qualità materiali del colore e lo libera dalle antiche funzioni illusionistiche, ri-segnandolo secondo tensioni sotterranee, variazioni interne di una percettibilità non deflagrante, ma inquieta e allusiva, a cui aderiamo con occhi nuovi per dare fiato ad una “diversa” logica della visione all’interno di una stupita e riscoperta condizione d’esistenza. Una logica che struttura l’opera intimamente, per far pervenire, a noi, informazioni non ancora omologate, indicandoci il quadro come intendeva Fontana: come vettore di  in queste ultime tele il colore, che sarebbe piaciuto a Turner, si rivela al massimo della sua complessità semantica ed espressiva, nella diversità sostanziale dei suoi valori freddi o caldi, e si fa schermo negativo o positivo di luce, pigmento arcaico, materia che si scontra con la densità opaca della tela intesa come base monocroma di cui si lascia visibile il bordo-squadratura, liberando così sensibili gradi emozionali determinati dai timbri e dal peso del colore-luce, che, come scrive Guarneri si dà come “evoluzione storica dei colori timbrici e tonali”. È proprio attraverso la concentrazione luminosa e pulviscolare della cromia, avvenuta per levitazione e sovrapposizione lenta di velature, che il colore di Bargoni, per dirla con l’ultimo Rosenberg, riesce a “provocare sensazioni – di timore, d’angoscia, di liberazione – troppo profondamente sepolte per poter essere portate in superficie come metafore visive”. Su questo piano avviene il confronto diretto con la realtà; oggettivando i principi di concentrazione fisica conoscitiva e concettuale che essa contiene, e che l’autore rende suoi stabilendo con essa un rapporto non dato “a priori” che sta tra vita ed esperienza, senza la presunzione, tipica di molti artisti contemporanei, di offrire verità che non contano. La pennellata lavora per “sottrazioni” e, con severa sorveglianza sintattica, contrae la materia, liquida, alonata, magra, povera, per evidenziare invece pulsioni “minime” dello spazio e della cromia che confina con una processualità in “divenire” delle strutture geometriche, mai “primary structures”, ma delimitazione di campiture di colore che mettono in atto un’azione integrante l’emozione e la progettazione che si protende verso il futuro. Il quadro tautologicamente quadrato, che celebra con ironico rigore ”l’immutabile angolo retto” di Mondrian, e inteso da Bargoni come “forma” dell’interno e dell’esterno nello stesso tempo, tessera di un gigantesco mosaico ancora da comporre, astrazione primaria, immagine “conosciuta” e ormai “dimostrata” da Pitagora. La tela si presenta come un quadrato che fa da supporto ad un altro quadrato, la cui cornice di stoffa grezza definisce la funzione di differenza dalla parete allo scopo di oggettivarla, mentre ai margini tracce di matita bianca, o nera, identificano, ortogonalmente, uno spazio visionario come universo luminoso, luogo di evocazioni che si differenziano per diversi gradi di “illuminazione”. Ma tutte le operazioni sono contraddette ed evidenziate da spartizioni secondo diagonali e mediane, (come una squadratura del foglio) che determinano una vitale dialettica tra una geometria pronta a negarsi e un colore – che non teme di darsi anche valenze simboliche, psicologiche o letterarie – nel quale tende comunque ad incarnarsi agendo, per vibrazioni e contrazioni. Si instaura così un campo di relazioni straordinariamente sottili che diventano percettibili attraverso sfumature – da non intendersi in senso atmosferico, ma come complesso di attrazione, irraggiamento, slittamento e concentrazione volontaria – che segnano il momento misterioso, bidimensionale, che potrebbe essere definito “luogo zero”, in cui si fa la “pittura” e nasce l’azione (atto pittorico primario e la si difende, senza precipitare nel feticismo dei materiali come accade invece a molti “neo-pittori”.

 

 

 

Sono dunque di Bargoni certe costanti quali la “durata”, e la “continuità” della pulsione cromatica, la necessità di progettare e di gestire il progetto stesso, il senso del passato e quello del futuro, elementi questi che non possono prescindere comunque da qualità d’emozione, anche se poi è il problema dell’oggettività non oggettiva che sta alla base del suo lavoro. Percepire in modo pregnante le forme che ci circondano è vitale, allora Bargoni – anche se è costretto a materializzare la propria ricerca in qualcosa di oggettivo e determinato – interviene per riportare nella rarefazione una situazione di oggettività, togliere quindi alla tela ogni interferenza di carattere casuale o gestuale, e annullare l’impatto con l’immagine, non per un improvviso desiderio di anonimità e autopunizione, ma per volontà di trovare con l’analisi quel contesto in cui il lavoro si situa per proporre una realtà alternativa. [Una ricerca di valori elementari: spazio, colore, luce, che non vengono violentati e piegati ad altri scopi, ma cercati come misure minime di una tensione poetica, soggetta ad aumento o diminuzione delle pulsioni cromatiche a seconda se enfatizzate o no da un magnetismo virtuale che cattura la luce, come misura di incidenza mentale concentrata che cambia in continuazione i propri rapporti col “totale” del quadro. In mezzo al pullulare di gesti e pensieri coatti, in un momento in cui la cultura si rivela incapace di esprimersi in versioni critiche ed articolate della realtà, Bargoni cerca di restituire all’arte il suo compito: la libertà espressiva, usando la discrezionalità di decidere tra modulo e associazione poetica, tra ordito e variante interpretativa, ricercando dunque la propria autenticità nella capacità di aprirsi a “diverse” possibilità di percepire il reale, leggendo il quadro come luogo di analisi e riflessione, un luogo esatto per far scattare “qualcosa” che ha a che fare col piacere della percezione fisica, mentale, conoscitiva ed emozionale.

 

 

 

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