Bargoni, o del funambolismo esistenziale.
C’è l’artista, c’è l’opera da lui creata, ci sono quelli che la guardano. Di questi ultimi, la critica è la parte più specializzata; il suo compito, prima di ogni altro, è rendere coscienti del fatto che l’opera, nel momento stesso in cui esce dalle mani dell’artista per offrirsi agli altri, diventa qualcosa di diverso da come è stata concepita. Volessimo dirla un po’ nei termini con cui Umberto Eco ha teorizzato in semiotica il concetto di “opera aperta”: piuttosto che essere interpretata nel modo unilaterale che potrebbe pretendere il suo creatore o anche il filologo, l’opera è più spesso soggetta a tante interpretazioni quante sono le differenze di formazione culturale e di sensibilità personale dei suoi interpreti. Le opere che fanno grandi i musei sono tali non perché sono “quello e basta”, ma perché capaci di suscitare un numero sterminato di interpretazioni, che possono essere anche assai lontane dalle intenzioni di chi le ha create. E’ questo il bello dell’arte, riversare nelle opere ciò che siamo per poterci appropriare di esse, trasformando qualcosa di individuale all’origine in un fenomeno di coinvolgimento collettivo. Giancarlo Bargoni è artista che esalta al massimo livello la multipla interpretabilità dell’opera d’arte. Non solo per ciò che crea, costituzionalmente votato, per il solo fatto di essere – per lo meno da un certo momento in poi, quasi nel mezzo di una carriera ultra cinquantennale che lo aveva visto praticare, a Genova, l’attività di gruppo e la sperimentazione nel versante della cosiddetta “Pittura pittura” – espressione appartenente di diritto alla categoria dell’Informale, a essere visto con una certa liquidità di disposizione, ognuno facendo i conti con sé stesso nel momento in cui si confronta con l’opera, ma anche per quanto ci dice sul suo modo di creare. Trovo particolarmente interessante, per esempio, che Bargoni, giunto ormai a una maturazione artistica indiscutibile, di opere in primo luogo, ma anche di pensiero, definisca distruttivo il procedimento fondamentale attraverso cui configura le sue opere, poi compensato, nel fieri creativo, dal momento contrario della ricostruzione.
BARGONI
Per conto nostro, avremmo detto che, piuttosto che instaurare una dialettica oppositiva fra il destruens e il construens, la pittura di Bargoni l’avesse superata in virtù di un processo di progressiva accumulazione, portata avanti fino a quando gli insiemi di segno, materia e gesto che sono accomunabili sotto il denominatore del colore, entità prioritaria della grammatica bargoniana che assolve allo stesso modo funzioni sensoriali e strutturali, non fossero pervenuti al raggiungimento di un equilibrio compositivo, visuale e fisico, quasi biotico, direi, che preluda alla fase di stabilizzazione del risultato così ottenuto, come in una specie di stagionatura che dalla sedimentazione si proponga di ottenere il consolidamento della forma finalmente compiuta. Per questo, avrei associato Bargoni a un funambolo, figura cara a Jean Genet, “festa unica”, apparizione che ogni volta che sfida il pericolo mortale, afferma tutta la forza della vita, alla ricerca, forse, di un equilibrio assoluto. Ma è Bargoni in persona a dissuaderci dalla tentazione di presumere il funambolismo come una dote innata e assoluta, escludendo che l’esito di ogni sua opera, che pure ci parrebbe perfettamente realizzata, non più sottoponibile ad alcuna modifica, neanche la più impalpabile, pena il rischio di compromettere l’equilibrio raggiunto, sia da ritenere definitivo: nulla, ci dice, va considerato per sempre, il vero finito dell’opera è quando rimane priva di possibilità di ulteriori sviluppi, non avendo, in sostanza, più nulla da dire. Non c’è che da prenderne atto, accettandone le conseguenze: in pittura, che per Bargoni rimane attività di carattere eminentemente pratico, con la mano (il piede, avremmo detto per i funamboli) sempre a precedere, nell’automatismo creativo, la riflessione fatta a tavolino, l’equilibrio non è mai un concetto astratto, d’ordine metafisico, ma, semmai, una nozione di respiro più contingente, fenomenologico, esistendone tanti quanti sono i problemi artistici che ciascuna opera, nel momento in cui comincia a prendere forma, mira a risolvere. Non basta cercare, nel funambolismo dell’arte, bisogna trovare, e non qualcosa che si è già intuito, o, peggio, che si è già intenzionati a scorgere, ché il gioco, altrimenti, sarebbe baro e non avrebbe alcuna utilità, ma ciò che gli elementi in ballo, di volta in volta, nella loro infinita possibilità di combinazione, propongono all’arti- sta quando già si trova con le mani totalmente in pasta. Credo che la massima soddisfazione creativa di Bargoni consista proprio nel trovare ciò che in partenza non si aspettava, al culmine di un’avventura espressiva di cui lo sbocco della sua concrezione formale, pure così appagante, costruita, a suggellare la dominanza di una tinta calda e sgocciolante sulle altre, oppure calibrando col bilancino il contrasto fra tono e tono, fra spessore e spessore materico, con l’empirismo fattivo ed esperto di un’architettura spontanea, è solo il residuo visibile di un’esperienza interiore di fortissimo coinvolgimento, come una sorta di rinascenza dalle ceneri, di rinnovamento spirituale che si verifica ogni qual volta si trova ad affrontare il cimento artistico. “Io sono”, afferma a chiare lettere ogni opera di Bargoni, e lo sono nel momento in cui ho creato, in un pro- cesso in cui la creazione, a sua volta, finisce per creare me. Io ho fatto, e sono stato fatto. Se ammirando questo funambolismo artistico che nel suo profondo è intensa testimonianza di vita, avessimo l’impressione di percepire, come in Genet, la rivelazione di qualcosa di prima non avvertito, offrendoci la possibilità di acquisire qualcosa che non faceva parte del nostro bagaglio di certezze, si sappia che è il riflesso, perfino pallido, nella sua portata inevitabilmente limitata rispetto all’esperienza esistenziale da cui deriva, di quanto l’opera aveva già rivelato all’artista. Ecco perché Bargoni non accetta l’idea che le sue opere siano mai finite, per renderle e renderci sempre disponibili al libero, rigenerante flusso dell’emozione. Perché lui sia un pò in noi, e noi in lui. (Vittorio Sgarbi)